Sabato 27 maggio
Ct 5,9-14.15c-d.16c-d; 2; Sal 18 (19); 1Cor 15,53-58; Gv 15,1-8
«Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (Gv 15,5-6).
Nell’Antico Testamento l’immagine della vite è utilizzata abbondantemente soprattutto nei Salmi e nei Profeti. Il paragone di Gesù nel Vangelo di Giovanni segna una rottura. Il Padre rimane nel ruolo del viticoltore, ma Cristo, vite vera, diventa il punto fondamentale della metafora. Gesù fa vivere i credenti a condizione che rimangano in lui, altrimenti sono sterili, perché al di fuori di lui non possono fare nulla. Il motivo del «rimanere» è qui sovrabbondante: esprime le condizioni di un incontro duraturo con Gesù e con il Padre: credere in lui in verità, essere attirato da lui, amarlo ed essere amato da lui, produrre frutto. I tralci traggono il loro vigore da lui; quelli che non portano frutto debbono essere eliminati. Portare frutto significa, dunque, aderire pienamente a Gesù nella fede e nell’amore, in un atteggiamento di conversione permanente, ossia con un amore più intenso, che diventi segno per il mondo. La forza di questo inciso è ricordare che senza Gesù i discepoli non possono fare nulla. Si tratta di un accenno polemico contro coloro che cercano al di fuori di Gesù la sorgente della vita e della salvezza.
Preghiamo
Signore Gesù,
senza di te non possiamo fare nulla.
Qualche volta ci illudiamo e scegliamo altre strade.
Ma poi comprendiamo che solo in comunione con te
possiamo dare frutto.
[da: La Parola ogni giorno. L’esistenza “in Cristo”, Quaresima e Pasqua 2017, Centro Ambrosiano, Milano]