Venerdì della settimana della III domenica dopo Pentecoste
Romualdo, di nobile origine ravennate, è una singolare figura di monaco ed eremita riformatore, vissuto tra il 960 e il 1027. Dopo una giovinezza dissipata tra gli agi della corte, entrò nel monastero di S. Apollinare in Classe. Alla ricerca di una perfezione evangelica sempre maggiore, abbandonò quella comunità e condusse in diversi luoghi dell’Europa vita eremitica ed aspra.
Fu eletto abate di S. Apollinare nel 998 per volontà dell’imperatore Ottone III ma, insofferente della mediocrità di quei monaci, riprese ben presto il suo pellegrinare verso una professione monastica più coerente e austera. Mediante una vita prevalentemente itinerante, svolse il ruolo profetico di maestro spirituale e di coscienza critica nei confronti dei monaci, della gente comune e dei potenti del suo tempo, tra cui lo stesso imperatore Ottone III; ma fu anche, su un fronte diverso e complementare rispetto alla più nota riforma cluniacense, riformatore di vita, proponendo abitudini più semplici ed essenziali all’interno della tradizione comunitaria benedettina, innestando strutture istituzionali che consentissero di vivere anche il carisma di una vita di solitudine, ad edificazione di tutti.
Come la comunità è il luogo dell’esercizio della carità fraterna, perché “chi non ama suo fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 21), così la solitudine e il silenzio sono il luogo del confronto personale con Dio che chiama ciascuno a una risposta d’amore unica e irripetibile. Romualdo interpretò la solitudine, vissuta fino a situazioni estreme di reclusione, come espressione della radicalità di questo amore, senza tuttavia astenersi, quando necessario o opportuno, da forme intense di amicizia spirituale e di comunione fraterna.
Dimensione cenobitica e dimensione eremitica costituiscono, nella vita delle comunità monastiche camaldolesi, che ancora oggi si ispirano a lui come loro fondatore, una realtà unitaria, all’interno di una dialettica di tensioni, espressa in un testo della primitiva tradizione romualdina come un “triplice bene”: “la vita cenobitica, che i novizi desiderano; l’aurea solitudine per i maturi, assetati del Dio vivente, e l’annunzio evangelico tra i pagani (nella prospettiva del martirio) per chi anela alla liberazione e all’essere con Cristo” (Bruno di Querfurt, Vita dei cinque fratelli).
Il 19 giugno dell’anno 1027 Romualdo si addormentò nel Signore. Per questo nella Chiesa romana la sua memoria è celebrata il 19 giugno.
Nella Diocesi di Bergamo si celebra la solennità di san Gregorio Barbarigo (1625 – 1697), vescovo prima di Bergamo e poi di Padova, secondo patrono della città e della Diocesi lombarda. Vissuto in un’ora nevralgica della storia della Chiesa, ebbe parte al Congresso di Munster ove venne sancito il trattato di Westfalia (1648), che pose fine alla triste guerra ‘dei Trent’anni’. Ma molto più la sua memoria è legata alla sua figura di vescovo, di spessore paragonabile a quello di san Carlo per la Diocesi di Milano.