Così il collaboratore della Fondazione Lanza e membro del Gruppo “Responsabilità per il Creato” della Cei definisce il Glasgow Climate Pact: «Il fatto che la famiglia umana provi a camminare insieme è un segno di speranza»

di Gigliola ALFARO
Agensir

Cop26

Il Glasgow Climate Pact è realtà. Il documento stato firmato da quasi 200 Paesi, con un giorno di ritardo, la sera del 13 novembre, a Glasgow, al termine della Cop26. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, non ha esitato a parlare di compromesso, il presidente della Cop26, Alok Sharma, di «vittoria fragile», molti osservatori di testo annacquato, anche per il colpo di coda finale dell’India che è riuscita a sostituire nel testo finale la formula «phase-out», cioè «eliminazione graduale» del carbone, inserendo l’espressione «phase-down», cioè «riduzione graduale».

L’accordo conferma l’obiettivo di limitare a 1,5 gradi centigradi il riscaldamento globale, rispetto ai livelli pre-industriali, obiettivo per il quale è necessario garantire significative riduzioni delle emissioni globali di gas serra. Occorre «accelerare gli sforzi verso la riduzione graduale dell’energia a carbone», fornendo al contempo un sostegno mirato alle nazioni più vulnerabili. I Paesi firmatari dovranno «rivedere e rafforzare» i loro obiettivi di riduzione delle emissioni per il 2030 entro la fine del 2022. Ai Paesi ricchi si chiede di «almeno raddoppiare» entro il 2025, rispetto ai livelli del 2019, i finanziamenti per sostenere l’adattamento dei Paesi in via di sviluppo.

Dei risultati raggiunti con il “Patto di Glasgow” parliamo con Simone Morandini, collaboratore della Fondazione Lanza e membro del Gruppo “Responsabilità per il Creato” della Cei.

Qual è il suo giudizio sul Glasgow Climate Pact?
Non c’è una parola che possa descrivere esaustivamente il Patto di Glasgow. Da un lato, ci sono degli elementi positivi: il traguardo fissato al 2030 per una riduzione delle emissioni; l’accordo bilaterale sul clima tra Usa e Cina, i due grandi Paesi emettitori che finora sembrava giocassero solo l’uno contro l’altro; percorsi di riduzione delle emissioni da rivedere tra un anno e non tra cinque come prevedevano gli Accordi di Parigi. Ci sono i riferimenti espliciti e molto forti ai risultati e agli obiettivi proposti dall’Ipcc (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico). Viene preso in considerazione un altro grave inquinante, come il metano. Ancora, elementi significativi sul fronte dell’adattamento climatico: si sono rafforzate le promesse di un finanziamento da parte dei Paesi economicamente più solidi a favore dei Paesi più colpiti dal cambiamento climatico. Per questo, dire che si è fatto solo “bla bla bla” lo trovo ingeneroso verso chi ci ha messo la faccia e si è speso parecchio per ottenere questi risultati.

Tutto sommato, allora, la Cop ha avuto buoni risultati?
Questo è il bicchiere mezzo pieno. Ma è anche mezzo vuoto perché effettivamente ci sono punti molto deludenti. Prima di tutto, l’indebolimento più forte riguarda la neutralità climatica, da raggiungere non entro il 2050, come chiedevano i Paesi più impegnati, Unione europea e Stati Uniti in testa, ma attorno alla metà del secolo. Cina e Russia hanno parlato del 2060, India e Indonesia addirittura del 2070. Quello che ha deluso di più è stato l’inserimento nel documento finale di tre o quattro parole che hanno cambiato passaggi significativi come sostituire «phase-out» con «phase-down», cioè invece di «eliminare gradualmente il carbone» limitarsi a «ridurlo gradualmente». Un altro problema è che nel testo finale non si parla di ridurre l’uso del carbone in generale, ma solo di quello «unabated», cioè il carbone usato senza trattare e catturare le emissioni: questa parola indebolisce molto il Patto, perché lascia la via aperta all’uso del carbone quando si usano opportune tecnologie (e col rischio che ciò accada di fatto anche in loro assenza). Inoltre, si parla di ridurre – mentre si sperava di eliminare – i sussidi ai combustibili fossili, ma si è introdotta la parola «sussidi inefficienti»; se invece un sussidio si considera efficiente – secondo quali criteri? – può anche restare e quindi si può continuare a finanziare combustibili fossili che degradano drammaticamente il clima planetario. Su questo capisco che il presidente della Cop26, Alok Sharma, si sia quasi messo a piangere: ci si sente traditi con questi blitz dell’ultimo momento da parte di alcune nazioni recalcitranti a fare impegni per il cambiamento climatico.

Sul fronte degli aiuti ai Paesi poveri i risultati raggiunti sono soddisfacenti o meno?
La questione non è quello che dicono i documenti, ma le pratiche a essi collegate. Anche nelle Cop precedenti si è largheggiato nelle promesse di finanziamenti e adesso sono state anche rafforzate, ma occorre vedere se effettivamente si concretizzeranno. Questa è una voce che non mi sento di inserire nel bilancio degli elementi positivi o negativi, certo il pregresso del comportamento dei Paesi ricchi negli ultimi anni non è stato soddisfacente. Hanno ragione i Paesi dell’Africa e delle piccole isole a lamentare che quella finanza necessaria alle loro fragili economie per contrastare gli impatti del mutamento climatico non è stata sostenuta in modo abbastanza robusto dai Paesi ricchi.

L’azione dell’Ue nella Conferenza è stata efficace?
L’impressione è che l’Unione europea abbia fatto ciò che poteva e doveva fare. È arrivata mettendo sul tavolo l’essersi data obiettivi ambiziosi con scadenze ben definite, sperando di riuscire a farli condividere anche agli altri partner in gioco. Ha trovato una buona sponda negli Stati Uniti. India e Cina invece hanno alzato un muro sin dai primi giorni, la Cina si è un po’ ammorbidita, almeno in parte, ma l’India è restata estremamente dura; sono Paesi grandi emettitori e con una grande forza politica attualmente. Non credo che l’Ue potesse fare di più.

La Cop26 ha mostrato ancora una volta che i Paesi economicamente forti non sono capaci di recepire il grido della terra e dei poveri?
In questo momento il campo degli interessi, delle azioni, delle promesse e delle speranze è molto più articolato di quello che evoca l’immagine “Paesi ricchi vs Paesi poveri”. Alcune delle economie più avanzate – Stati Uniti e Unione europea – si stanno spendendo tanto per contenere il cambiamento climatico e garantire un futuro alle prossime generazioni, a tutti gli abitanti del pianeta. C’è poi una rete di Paesi fragili, che concordano con questo impegno, ma chiedono in più un sostegno finanziario per sopravvivere al mutamento che già è in atto e sta impattando fortemente su di essi. C’è, infine, un terzo gruppo, di cui fanno parte la Cina, l’India, la Russia, che hanno interessi decisamente contrastanti con i due precedenti e alcuni di essi invocano anche la cosiddetta “giustizia climatica”: siccome altri hanno inquinato tanto in passato, ora essi rivendicano il diritto a fare qualcosa di analogo per le loro economie. Trovo che questa sia la parola più deviante che è risuonata nel corso della Cop26: non esiste un diritto a inquinare, esiste un diritto a un ambiente sano, a godere di un ambiente sostenibile per le generazioni future. Non si può parlare di giustizia nel senso di “pari diritto a inquinare”. Giustizia è richiedere che chi è colpito dal mutamento climatico venga in qualche misura risarcito o quanto meno sostenuto nel far fronte ai danni; non è invece giustizia rivendicare per il futuro – per altri cinquant’anni – il diritto a inquinare il nostro pianeta e a emettere gas serra con limitazioni marginali.

Quale può essere il ruolo delle Chiese, della società civile e dei giovani per assicurare un futuro migliore al nostro mondo?
Nei nostri Paesi le Chiese possono e devono continuare a chiedere che si operi per la salvaguardia dell’ambiente e per la giustizia. L’Unione europea ha già fatto diversi passi, ma nei Paesi tradizionalmente considerati vicini alla fede cristiana ancora ci sono margini di miglioramento, per esempio negli stili di vita, con una certa sobrietà da coltivare, ma anche sul piano delle tecnologie e dell’organizzazione sociale, di politiche ambientali e di investimenti in tecnologie verdi. È importante che le Chiese e i giovani alzino le loro voci perché questo si faccia. D’altro canto, è chiaro che su tali questioni il mondo delle religioni e la società civile internazionale non possono che procedere nel dialogo, se vogliono essere efficaci. Giovani e Chiese possono fare pressione, un lavoro culturale, un lavoro formativo, alzare la voce, in particolare nei confronti di mondi culturali e tradizioni religiose diverse. Allora la sfida diventa saper coinvolgere anche altre realtà culturali e spirituali, anche in altre aree geografiche in un cammino di advocacy condivisa a favore delle generazioni future.

Dopo la Cop26 e il Patto di Glasgow come possiamo guardare al futuro?
Il fatto che le Cop ci siano, con una faticosa ricerca di convergenza su un agire condiviso possibile, è nonostante tutto un segno di speranza, pur con la parzialità dei risultati. Il fatto che tenacemente si voglia scrivere un documento comune e che anche i Paesi vulnerabili, pur consci che non corrisponde alle loro attese, dicano “meglio così che nessun documento” dà l’idea di una famiglia umana che prova a camminare assieme, a superare barriere culturali ed interessi perché in qualche modo capisce che o ci salviamo assieme oppure periremo tutti: con modalità e intensità e tempi diversi, ma il degrado planetario oggi ci investe tutti.

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