La sfida ambientale si intreccia con economia, stili di vita, ricchezza-povertà, migrazioni. Quali reazioni dal mondo missionario? Alcune voci da Mozambico, Perù e Brasile
di Ilaria
DE BONIS
Redazione “Popoli e Missioni”
Mentre la Cop26 entra nel vivo a Glasgow, i leader africani prendono la parola, contestando lo scarso impegno dei big rispetto alle somme promesse ai poveri per tenere sotto controllo i gas serra. Anche i missionari si interrogano sull’esito del vertice mondiale: «Gli aiuti economici sono importanti – dicono -, ma altrettanto importante è monitorare come vengono impiegati: devono essere ben canalizzati».
La questione che preoccupa di più i Paesi poveri è lo stanziamento effettivo dei 100 miliardi di dollari l’anno, promessi dai Paesi avanzati già nel 2009 per limitare le emissioni nocive di Co2. Questi fondi non sono stati ancora del tutto devoluti (mancano all’appello 20 miliardi di dollari del 2019, come ha confermato l’Ocse), e come hanno ribadito i leader di Ghana, Guyana e Maldive. I Paesi del G20 promettono ulteriori stanziamenti a partire dal 2023 (si parla di almeno 100 miliardi di dollari l’anno, ma le agenzie delle Nazioni Unite chiedono uno sforzo ben più consistente). La speranza è che portino a termine almeno l’impegno minimo.
Una questione di giustizia sociale
Dove vanno gli aiuti? «Per noi questa è una questione di sopravvivenza», ha detto ieri il presidente della Guyana Mohamed Irfaan Ali. I missionari ritengono che le cifre promesse siano necessarie, ma è altrettanto necessario controllare la destinazione. «È molto importante che i Paesi africani ottengano questi aiuti – spiega padre Jorge Alberto Bender dal Mozambico – per due ragioni: per una questione di giustizia sociale e per evitare che le persone affette dai cambiamenti climatici debbano emigrare. Gli aiuti quindi sono necessari, però devono essere ben pianificati e ben orientati: i governi africani li ricevono ma devono effettivamente raggiungere lo scopo di limitare l’inquinamento».
Per quanto riguarda l’America Latina, Perù e Brasile sono i più interessati agli effetti nefasti della deforestazione e del clima impazzito. «Sono temi molto sentiti anche nel vicariato qui da noi in Perù, dove si è aperta una discussione in merito – dice il fidei donum Giacomo Crespi da Pucallpa, a pochi chilometri dalla foresta amazzonica -; stiamo sentendo tanto questo clima impazzito: qui fa sempre più caldo e la gente è spaventata. Per mesi non piove e mai il caldo era stato così insostenibile. Le palafitte delle popolazioni indigene vanno spesso a fuoco».
Partire “dal basso”
Il Brasile è uno dei Paesi target degli aiuti, ma è anche uno di quelli considerati più responsabili della deforestazione in Amazzonia. «Bolsonaro non si è presentato di persona a questo vertice – ricorda il fidei donum Michele Mola dal Brasile –, la sua assenza indica una volontà e una strada intrapresa». Secondo Mola in Brasile manca un’azione dal basso, una presa di coscienza dell’importanza di limitare la deforestazione. «In generale qualsiasi azione che possano assumere alla Cop26 è un bene e bisogna fare pressione. Ma bisogna anche partire dal basso – ribadisce -. So che non siamo noi qui in Brasile a inquinare più dei ricchi, ma qui manca una coscienza alla base. Eppure i cambiamenti climatici sono evidenti: abbiamo ad esempio piogge abbondanti anche durante la stagione secca. Noi abbiamo poi il grande problema dei campi incendiati. Per poter tagliare la canna da zucchero si dà fuoco alle distese coltivate».
Gli enormi appezzamenti di monocolture vengono incendiati durante la notte, spiega Mola, «per agevolare il lavoro e il taglio delle canne da zucchero. Questo ha conseguenze devastante su tutto ciò che ci circonda». Infine ancora Giacomo Crespi dal Perù osserva: «Come potrebbero essere utilizzati i fondi? Facendo tanta educazione ambientale. Serve un lavoro culturale sulle persone oltre che sui governi».