Nella IV domenica dell’Avvento ambrosiano, in Duomo, sono stati invitati specificamente i volontari aderenti a decine di Associazioni ed Enti. Prima della Messa il dialogo tra 6 di loro, in rappresentanza del mondo Caritas, con l’Arcivescovo

di Annamaria Braccini

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Alla vigilia del 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (votata a Parigi, il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite), in Duomo, sono i volontari gli invitati speciali – hanno aderito decine di Gruppi ed Associazioni – per la Celebrazione della la IV domenica dell’Avvento ambrosiano. Eucaristia nella quale l’Arcivescovo – che la presiede – invita a vivere, come discepoli coerenti del Signore, con un servizio ai più deboli e fragili, fedele e capace di divenire «prodigio di umanità».

In apertura, il Vicario episcopale di Settore, monsignor Luca Bressan, ricorda l’importante anniversario della Dichiarazione, facendo memoria di «due grandi ambrosiani», il beato don Carlo Gnocchi, «accento alla vita sempre» e il cardinale Dionigi Tettamanzi che, fin dal giorno suo ingresso solenne a Milano, disse: «I diritti dei deboli non sono diritti deboli».

Nel riferimento al brano evangelico di Luca, con l’ingresso di Gesù a Gerusalemme circondato dall’entusiasmo della folla, si articola l’omelia dell’Arcivescovo, quale richiamo a non farsi travolgere dalle fin troppo facili esaltazioni di oggi. Tanto simili ai sentimenti popolari «mutevoli, passeggeri, inaffidabili» di un mattino di 2000 anni fa, pieno di luce, ma dove «nell’ombra, si consultano quelli che presumono di governare l’andamento degli eventi e pianificano le loro trame per eliminare il Signore».

Un entusiasmo – suggerisce il vescovo Mario – che, seppure precario e inconcludente, racconta di un’attesa «per cui ogni scintilla può scatenare l’incendio», ma dice anche «della ricerca di uno spiraglio da cui può entrare la luce, di un pertugio che indica la via».

Laddove questo è l’atteggiamento degli umani in ogni tempo, il modo di avvicinarsi del Signore definisce una speranza sempre possibile, un servizio autentico, perché nato dal sacrificio e dall’amore.

«Gesù non compie la sua missione approfittando dell’entusiasmo travolgente, della popolarità eccitata che lo accoglie; si avvicina con cautela, ma anche con tenacia, là dove abitano le tenebre piuttosto che lo splendore di un mattino di primavera; cerca quella parte oscura del cuore umano dove si è insinuata la schiavitù per la paura della morte; vuole che la pace e la gloria dei cieli non rimangano nei cieli, ma entrino nella carne e nel sangue».

Per questo Gesù è il Salvatore, «perché porta la salvezza nel lato oscuro della vita e non solo nella festa facile; perché vince e riduce all’impotenza la morte e non solo esalta i momenti in cui la vita è bella; perché sottomette ogni cosa con la mitezza e l’attrattiva dell’amore e non con la potenza e l’imposizione».

È il «percorso intenso di tenerezza» con cui Cristo si avvicina alle ferite dell’umanità.

«La coerenza dei discepoli con il loro Maestro si esprime, dunque, nell’essere una prossimità che si fa carico delle attese della città, non con l’evento clamoroso, ma con il prendersi cura della fragilità, della carne e del sangue».

Arriva, così, il grazie per i volontari e per «quel prodigio che è la dedizione affidabile: non un colpo di bacchetta magica, ma il servizio fedele, la presa in carico di un bisogno in modo stabile».

Ciò che è, in una parola sola, il volontariato «che rende abitabile la terra».

Quello che «visita le zone d’ombra della comunità, raccoglie le pene diffuse, interroga l’esasperazione irrequieta e si mette a disposizione, non solo per offrire il sollievo di un piccolo servizio o una compagnia di conforto palliativa, ma per stabilire un’alleanza».

«Siate ringraziati e benedetti voi che celebrate la risposta al bisogno dei fratelli, non con un’emotività entusiasta, ma con una solidarietà continuativa; voi che siete persone che onorate i vostri impegni senza pretendere ringraziamenti e riconoscimenti; voi che, ogni giorno, assicurate questi servizi necessari nella complessità della società; voi che raccontate i prodigi di Dio con la fedeltà di tanti giorni, di tante notti, di tante pene, di tanto prodigio di umanità».

Pensieri già espressi, dall’Arcivescovo, prima della Messa nel dialogo con 3 coppie di coniugi in rappresentanza del volontariato di Caritas.

In dialogo con i volontari

Luciano Gualzetti, direttore di Caritas ambrosiana, presentando gli interlocutori di monsignor Delpini, dice: «I nostri volontari si occupano di persone tradizionalmente considerate povere – i senza dimora, i disoccupati -, ma di anche vittime delle nuove povertà come l’indebitamento o i gioco d’azzardo. Volontari che hanno “tenuto” in questo odierno contesto anche di ostilità, dove il povero è visto in modo negativo e come fonte di paura. Presentare chi è in difficoltà come risorsa non è facile».

Inizia Salvatore volontario del Rifugio di via Sammartini (presso la Stazione Centrale) parlando a nome di coloro che si occupano dei senza dimora. Con la moglie Silvia, sono volontari fin dall’inizio dell’impegno di Caritas nel Rifugio. «Abbiamo trovato gente giovane che ha speranza di rifarsi una vita. Ora sono molti impauriti. Abbiamo italiani meno giovani che hanno perso tutto, gli affetti, gli amici, il lavoro e anche la casa. Il nostro compito è di aiutarli, ascoltarli e stare con loro. Abbiamo costatato una grandissima distanza tra la realtà di questi uomini e la percezione esterna che ne ha la società che li considera quasi colpevoli. Cosa fare per ridurre questo gap

«Bisogna passare dalla categoria con cui li consideriamo alla persona, incoraggiando i rapporti personali», risponde subito l’Arcivescovo, che aggiunge: «Ringrazio di questo servizio. Tutti abbiamo sotto gli occhi chi, a sera, si prepara un giaciglio per strada. La percezione comune che si ha è quella di persone che hanno scelto di fare una vita vagabonda e che, quindi, sono irrecuperabili. Vi è poi, la concretezza dei fatti: la distanza nasce dall’inserire queste persone in una categoria, per cui vi è una generalizzazione. Invece, come testimoniano i volontari, ciascuno ha una storia.

Penso che bisognerebbe scambiare almeno una parola con chi è senza casa, sicurezze o lavoro. Passare dalla categorizzazione alle persone permette di fare passi avanti e di trovare soluzioni».

È la volta di Paola e Giovanni che rappresentano i più di 380 Centri di Ascolto Caritas. «Chi si rivolge a noi lo fa, generalmente, per un bisogno concreto, ma c’è moltissimo altro: il desiderio di essere accolti e ascoltati. Questo è il nostro primo compito: andare in fondo al non detto».

Dai problemi aperti di uno «scarso ricambio generazionale nel mondo del volontariato, della poca progettualità, con il rischio di cadere in una routine e nell’assistenzialismo, e della difficoltà a coinvolgere la comunità cristiana», nasce l’interrogativo. «Di fronte alle stesse persone che tornano agli sportelli, magari per anni, che fare?».

«Credo che i Centri di Ascolto siano un’invenzione geniale perché hanno segnato il passaggio dal gesto immediato all’ascolto. La conoscenza della persona in difficoltà, da parte dei volontari, permette di orientare, fare rete, propiziare gli interventi più adatti. Davanti alla constatazione di una certa cronicità, possiamo individuare due aspetti. È compito di tutti far comprendere la necessità di un cambiamento di stile di vita e di scelte di sobrietà. Dobbiamo fare in modo che le nostre comunità, più avvertite e sensibili, si ri-abituino a quella carità che è riabilitazione della persona. E, inoltre, occorre il coinvolgimento delle Istituzioni locali. Ci sono problemi che la beneficenza, per quanto generosa è illuminata, non può risolvere, per cui si deve compiere un’azione, in un certo senso, politica perché attiene a una visione della società che abbia a cuore il benessere dei cittadini e anche dei non cittadini».

Infine, Marina con il marito Alessandro, da 9 anni volontario al SAI, il Servizio istituito nel 2002 che offre ai migranti ascolto, orientamento nella ricerca del lavoro, consulenza e assistenza legale.

Anche qui, non mancano difficoltà come i problemi che emergono per la richiesta di professionalità complesse anche per i lavori più semplici o perché bisogna essere su internet, per presentare i curricula di lavoro e chi arriva non ne ha accesso». Senza dimenticare la «crescente ostilità nei confronti dei migranti che genera frustrazione e rancore».

«Cosa possiamo fare per disinnescare questo meccanismo così pericoloso?».

Generalizzare, anche in tale contesto, non aiuta, per il Vescovo. Una soluzione, però, esiste.

«Vorremmo che ci fosse una normativa affidabile, ragionevole e praticabile, capace di indicare percorsi. Infatti, tra i due estremi di un’accoglienza generalizzata e non sostenibile o del rifiuto totale, non si riesce a entrare in percorsi desiderabili perché vi sia una soluzione e un’umanità di trattamento».

«Mi pare che la tendenza generale sia di trattare i migranti come oggetti da collocare e non come persone che possono dire qualcosa. Bisognerebbe incoraggiarli a esprimersi, chiedendo loro cosa hanno da dare. Dentro questo persone ci sono segni, sogni, poesie, nostalgie, che stentano a essere comunicate».

Insomma, si tratta «di avere una normativa che porti a una visione più comprensiva delle situazioni e delle possibilità di soluzione, e, soprattutto, bisogna che i migranti prendano voce per raccontarsi, per dire in che modo possano portare un contributo, dare energie nuove e ringiovanire la nostra società che sta invecchiando, che sembra gelosa di un benessere che pare minacciato, ma che, se non si apre al futuro, rischia di scomparire. I migranti non sono un problema, ma una risorsa».

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