Nel nome del diplomatico ucciso in Congo la Bocconi istituisce 5 borse di studio per studenti meritevoli meno abbienti. Il padre Salvatore: «Era un gigante di onestà e nella sua carriera diplomatica ha intravisto una possibilità di fare il bene»
di Annamaria
Braccini
Il 22 febbraio scorso si compiva la tragedia dell’uccisione dell’ambasciatore nella Repubblica Democratica del Congo Luca Attanasio e del carabiniere della scorta Vittorio Iacovacci. Due servitori dello Stato stroncati, insieme all’autista congolese Mustapha Milambo, da un vile agguato perpetrato a colpi di kalashnikov (non ancora ben chiari i mandanti e gli esecutori, anche se sono stati eseguiti degli arresti), vicino alla città di Goma, mentre precorrevano, con un convoglio Onu, una strada particolarmente pericolosa. Ma il Programma di aiuti alimentari e per la stabilizzazione del Paese, per cui si era deciso il viaggio, era molto più importante dei rischi, che sono divenuti purtroppo realtà, in un angolo remoto di quell’Africa che Attanasio – che avrebbe compiuto 44 anni in maggio, cresciuto a Limbiate, città a cui era legatissimo – amava in modo particolare, avendo prestato servizio precedentemente anche in Marocco e in Nigeria.
Eppure anche da un dramma simile può nascere qualcosa che dà speranza e fa guardare al futuro. Infatti presso l’Università Bocconi sono state attivate alcune Borse di studio intitolate al diplomatico laureatosi con lode in Economia aziendale, proprio nel prestigioso ateneo nel 2001.
Di che cosa si tratti lo abbiamo chiesto al padre di Luca, Salvatore Attanasio che, martedì 15 giugno parteciperà a un convegno online promosso dalla stessa Bocconi, nel quale l’ambasciatore – nel 2020 insignito del Premio Nassiriya per la pace – verrà commemorato dal rettore Gianmario Verona. Anche perché fare memoria attraverso delle Borse di studio che coniugano, in un contesto accademico e culturale di profilo internazionale, formazione, inclusione e maggiore equità sociale è gran bel segno.
Salvatore Attanasio, nella cui voce si sente a pieno un dolore incolmabile, ne è convinto: «Quando mio figlio è stato ucciso, la Bocconi si è attivata per una raccolta fondi, che ha avuto subito un successo enorme. Al momento i donatori sono oltre 600 e sono stati raccolti circa 90 mila euro. Una cifra che l’Università ha deciso di raddoppiare, istituendo 5 Borse di studio che consentiranno ad altrettanti studenti meritevoli, ma con condizioni economiche disagiate, di potersi iscrivere all’ateneo».
Il giorno delle esequie lei ha detto che il pensiero ora è tutto per le sue tre nipotine. Suo figlio sognava un mondo diverso ed era impegnato per costruire fratellanza e inclusione, maggiore giustizia con più amicizia tra i popoli e le nazioni. È questa l’eredità che lascia e che deve essere indicata ai più giovani?
Luca, nel corso della sua breve esistenza, ha fatto molto per i valori in cui credeva e, attraverso la sua umanità e generosità, non lo faceva in modo formale: la sua spontaneità lo portava ad ascoltare la gente più bisognosa, ma anche i potenti, che, ovviamente, incontrava svolgendo il lavoro diplomatico. Penso che questa abilità nell’ascolto degli altri nascesse proprio dal fatto che tra i suoi obiettivi vi era quello di edificare un mondo migliore, nel quale fosse consentito a tutti di vivere con dignità. Ha promosso molte iniziative in questo senso anche se noi non lo sapevamo, perché agiva senza particolari clamori e in modo schivo, però, lasciando il segno. Ora sappiamo tutto perché, dopo il tragico evento, abbiamo ricevuto tante testimonianze di persone che lo conoscevano, ma anche di gente che ne aveva sentito parlare o l’aveva incontrato una sola volta.
L’Arcivescovo, presiedendone i funerali, ha detto di suo figlio: «Troppo breve è stata la vita, ma la tua partenza non diventerà un’assenza» e, immaginando le parole con cui lo ha accolto il Signore, ha aggiunto: «Io ti benedico per ogni bicchiere d’acqua, per ogni pane condiviso, per l’ospitalità che hai offerto». Con quale parola vorrebbe che fosse ricordato Luca per essere sempre presente?
Gli aggettivi che si possono spendere sono tanti, ma sicuramente vorrei sottolineare la sua grande umanità: era un gigante di onestà. Questo non lo dice il padre, lo dicono le tante attestazioni che abbiamo ricevuto. Lui aveva intravisto, nella carriera diplomatica, una possibilità di fare il bene: infatti, l’avevano definito «ambasciatore di strada».
Una definizione che fa onore al suo lavoro e alla sua memoria non solo come ambasciatore, ma come uomo di pace. Non a caso, nella motivazione del Premio Nassirya si legge: «Per aver contribuito alla realizzazione di importanti progetti umanitari distinguendosi per l’altruismo, la dedizione e lo spirito di servizio a sostegno delle persone in difficoltà»…
Sì, certo: penso alle raccolte fondi promosse insieme alla moglie Zakia per portare un minimo di sollievo in quei villaggi dove non c’è possibilità di assistenza o all’impegno umanitario profuso con la Fondazione “Mama Sophia”.