Il presidente dell’Ambrosianeum, a lungo firma del “Corriere”, allora aveva 30 anni e lavorava all'ufficio stampa dell'Università Cattolica: «Non avevamo criteri di giudizio per comprendere quello che avevamo sotto gli occhi. Abbiamo il dovere di ricordare. Oggi sono violenza e fake news a minacciare la democrazia»

di Gianni BORSA
Agensir

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Un'immagine della strage

Tristezza, sgomento dolore. «Non eravamo preparati a tanta violenza». Marco Garzonio, milanese, conosciutissimo in città come firma del Corriere della Sera, presidente della Fondazione Ambrosianeum e psicoterapeuta, all’epoca della strage di piazza Fontana aveva 30 anni. Conserva un ricordo lucido di quel 12 dicembre 1969, quando una bomba, esplosa nella sede meneghina della Banca Nazionale dell’Agricoltura, causò 17 morti e 88 feriti. Milano in questi giorni sta ricordando il 50° anniversario della “madre di tutte le stragi” che sconvolsero il Paese per oltre un decennio secondo la cosiddetta “strategia della tensione”.

Cosa ricorda di quel giorno di cinquant’anni fa?
Era un periodo di grande impegno. Stavamo preparando un evento sulla cultura a Milano, che si sarebbe dovuto tenere il 13 dicembre. Allora ero alla guida dell’ufficio stampa dell’Università Cattolica: il rettore Giuseppe Lazzati e il pro rettore Mario Romani avevano avviato una serie di iniziative perché l’ateneo, oltre alla formazione dei giovani, fosse protagonista nel riportare la cultura al centro della vita del Paese, anche come risposta costruttiva alle contestazioni studentesche del ’68 e alle manifestazioni dei lavoratori nell’«autunno caldo». C’erano, al fondo, sollecitazioni che non potevano essere ignorate e che, per esempio, avrebbero portato allo Statuto dei lavoratori del 1970. Ebbene, quel sabato avevamo in programma un evento di rilievo e io stavo operando per la sua buona riuscita. D’improvviso arrivò la notizia: morti, feriti, in principio si parlava dello scoppio di una caldaia… Poi la bomba. E le prime indagini, la vicenda di Valpreda e quella di Pinelli… Nessuno poteva immaginare una simile deriva violenta.

Quali sentimenti attraversarono la città e l’Italia?
Credo che fummo tutti spiazzati, dalle istituzioni alla politica, alla gente comune. Si trattò di una bomba in ogni senso, che distrugge, uccide, spiazza, confonde. Non avevamo criteri di giudizio e metri di paragone per comprendere quello che avevamo sotto gli occhi e che ci avrebbe accompagnati per oltre un decennio: pensiamo alle tante altre stragi, all’Italicus, al rapimento e all’assassinio di Moro e della sua scorta, agli omicidi di Tobagi e Bachelet, ai “gambizzati” e ai morti tra forze dell’ordine, magistrati, sindacalisti, politici, giornalisti, esponenti dell’associazionismo. E Milano si trovò più volte al centro di tale violenza. Molti avevano anche pensato che il ’68 avrebbe potuto portate una ventata di rinnovamento nel Paese: la bomba di piazza Fontana fu un brusco risveglio.

Milano ricorda in questi giorni la strage e le vittime. Quale il senso della memoria?
Dobbiamo ricordare, è nostro dovere. Ricordare e imparare. I giovani e gli adulti di oggi hanno troppo facilmente dimenticato quella fase della nostra storia, e non solo quella. Invece la memoria ci aiuta a capire gli errori del passato, a evitarne di ulteriori, a costruire il futuro sulla base degli insegnamenti che ci giungono dal passato. Per cui – e lo dico anche da giornalista – al primo posto dovremmo mettere i fatti, il racconto di quegli anni che, con il terrorismo, segnarono nel profondo il Paese, seminando terrore. Abbiamo inoltre il dovere di comprendere la complessità dei fatti storici, legando assieme la cronaca, la politica, le trasformazioni sociali e del costume, i mutamenti avvenuti nel nostro Paese e nello scenario internazionale. Infine dobbiamo guardare all’oggi.

In che senso?
Basti pensare a quanto accaduto a Liliana Segre, agli attacchi che ha dovuto subire la senatrice a vita. Milano però ha risposto con fermezza e dignità grazie alla “marcia” dei sindaci. Perché la violenza, il terrorismo, il razzismo, le discriminazioni sono fortemente presenti tra noi. Viviamo in una conflittualità permanente, alimentata ad arte da politici senza scrupoli con toni e linguaggi che finiscono per minare la convivenza alla base della democrazia. Devono interrogarci la propaganda elettorale permanente, la violenza verbale e le fake news che passano grazie a un uso cattivo dei social, la scarsa volontà di mettersi in discussione credendo sempre di essere dalla parte della ragione. Tutto questo destabilizza le persone e disorienta l’opinione pubblica; le parole diventano a loro volta bombe contro la coscienza collettiva, il valore dello stare assieme da persone libere, le istituzioni. Dobbiamo contrastare una tale deriva e la cultura, la formazione, il dialogo rimangono antidoti preziosi che dobbiamo coltivare e promuovere senza mai stancarci. La cultura fa paura a chi scommette sull’ignoranza altrui.

La Fondazione Ambrosianeum ha in programma un evento il 12 dicembre. Ce lo può presentare?
Sì, la sera di giovedì 12 dicembre, alle 20.30 nella sala Falck della Fondazione, in via delle Ore 3, a pochi passi da piazza Fontana, avremo il tradizionale concerto di Natale con musiche gospel. Le note e i canti saranno alternati da poesie pubblicate negli anni della Resistenza sulla rivista Il ribelle. All’odio, alle minacce, alle bombe si risponde con l’amore. Parole di pace e di fratellanza sgorgavano dai cuori dei giovani che si battevano contro il fascismo e per la libertà. Fra di loro c’era il nostro don Giovanni Barbareschi, “ribelle per amore”. Ebbene, sarà questo il nostro modo di ricordare la strage di piazza Fontana e di rilanciare termini quali cultura, fratellanza, solidarietà, fede.

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