La situazione nella casa circondariale di Busto Arsizio raccontata dal cappellano don David Maria Riboldi. Tutto è fermo da oltre un anno in attesa del ritorno alla normalità
di Luisa
BOVE
Non si può certo parlare di post Covid nella casa circondariale di Busto Arsizio, non solo perché le persone vaccinate fino a una settimana fa erano solo un’ottantina su 400 detenuti, ma perché non c’è alcuna ripresa. Tutto è fermo da oltre un anno. «Da noi i colloqui in presenza non sono ancora attivati – dice il cappellano don David Maria Riboldi -, mentre a distanza si svolgono con whatsapp e devo dire che il personale si presta molto per cercare di garantirli il più possibile, io ho regalato anche le batterie aggiuntive. È chiaro che più aumenta il numero delle persone e più i cellulari diventano pochi, a dicembre erano 360, ma adesso sono 400 e tutti vogliono comunicare con whatsapp e ne hanno diritto».
È ripresa qualche attività?
No. Solo qualcosa con la scuola. Io celebro la Messa e da un anno, una volta alla settimana, il giovedì pomeriggio, organizzo il cinema. Non si è mai interrotto perché lo propongo a turno nelle singole sezioni. Sono film leggeri, ma a Pasqua e a Natale proietto pellicole serie con cineforum e devo dire che funziona, escono riflessioni molto belle.
E rispetto allo sport?
Non ci sono attività sportive, ma la possibilità di andare in palestra. Chi vuole la frequenta, ma non c’è altro.
Quindi neanche i volontari mettono piede in carcere?
No. Quel che è peggio però è che i papà non stanno vedendo i loro figli da 15 mesi, anche durante l’estate scorsa quando gli istituti hanno riaperto ai colloqui, a Busto Arsizio i bambini sotto i 12 anni non potevano entrare. I papà non stanno abbracciando i loro bambini da oltre un anno, non è normale. La limitazione affettiva va al di là del Covid.
Con le vaccinazioni a che punto siete?
Finora hanno vaccinato una minima parte di detenuti, anziani e persone con patologie, mentre il personale è già tutto vaccinato con AstraZeneca e a fine maggio riceverà la seconda dose. Io compreso.
A Busto in aprile avete organizzato il corso «Religioni a servizio della fraternità nel mondo»…
Sì, è stato molto bello. Don Giampiero Alberti (islamista, ndr) per me è un sostegno importante perché nel carcere di Busto Arsizio le persone di origine islamica sono tante. In 120 hanno vissuto il Ramadan, sono soprattutto del Maghreb, qualche egiziano e un bel gruppo di pakistani. Don Alberti mi aveva inviato il capitolo 8 dell’enciclica Fratelli tutti in arabo da condividere con i detenuti, ma io gli ho chiesto di venire lui in carcere a leggerlo con noi. Così l’ho proposto in una sola sezione, quella dei lavoranti dove ci sono persone più preparate e con le quali avevo già avuto dialoghi profondi.
Com’era strutturato?
Abbiamo organizzato tre incontri la domenica pomeriggio, l’ultimo in particolare è stato molto intenso. La prospettiva, ha detto don Giampiero, è riuscire a fare della nostra convivenza qui dentro, peraltro forzata, un’opportunità di incontro e dialogo, per riuscire a individuare i nodi che ci legano gli uni agli altri. Per esempio quando parliamo del valore della preghiera, dell’elemosina e del digiuno andiamo molto d’accordo; quindi dobbiamo impostare il nostro dialogo su elementi di condivisione. Poi è nata l’idea di compiere, alla fine del Ramadan, un gesto di carità per i detenuti più bisognosi e non solo musulmani.