Il ritorno in libertà di alcuni condannati all’ergastolo. Il parere di Giuseppe Savagnone, direttore del Centro per la cultura della diocesi di Palermo
a cura di Gigliola ALFARO
La Corte d’Appello di Catania ha sospeso alcune condanne all’ergastolo per la strage in cui fu ucciso il giudice Borsellino. Così sono tornati in libertà alcuni detenuti, condannati per l’omicidio del magistrato e della sua scorta in base alle accuse del pentito Vincenzo Scarantino. La scarcerazione è la conseguenza della richiesta di revisione del processo avanzata dal procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato, che ha rimesso in discussione le sentenze definitive sulla strage dopo le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. L’ex uomo dei Graviano, autoaccusatosi dell’eccidio, ha riscritto la storia dell’attentato, scagionato i condannati e accusato altri responsabili. Al momento, però, la revisione del processo è stata dichiarata inammissibile in quanto la responsabilità di un terzo deve essere prima accertata giudizialmente in modo definitivo. A Giuseppe Savagnone, direttore del Centro per la cultura della diocesi di Palermo, abbiamo chiesto un parere sulla vicenda e sui possibili effetti sulla lotta alla mafia.
Questa vicenda, professore, secondo lei, mette in cattiva luce il sistema dei pentiti?
Il discorso dei pentiti è sempre stato a doppio taglio. I pentiti sono persone che, per evitare delle punizioni più severe per loro, denunciano altri e questo è molto diverso dal pentimento nel senso in cui lo intendiamo noi cristiani. Tutto ciò lascia un’ombra molto pesante sulla figura del collaboratore di giustizia, perché è pur sempre una persona che ha compiuto gravi crimini. Se questo è un problema, è anche vero che i pentiti hanno avuto una funzione importante per scardinare certe logiche della mafia, come l’omertà. Siamo davanti a situazioni ambigue: certo la vicenda del processo sulla strage di via d’Amelio di questi giorni è molto inquietante perché significa che siamo sulle sabbie mobili e la magistratura è costretta ad andare a tentoni. Ma se confrontiamo quello che accade oggi con quanto avveniva quaranta.cinquant’anni fa, quando la mafia era un bunker impenetrabile, comunque adesso viviamo una condizione migliore che ci ha permesso di fare un passo avanti nella lotta contro la mafia, anche se pagata al prezzo dell’incertezza su molti fatti.
Come ci si potrebbe difendere da situazioni del genere?
Bisognerebbe rafforzare un atteggiamento di cautela nelle indagini: a volte la fretta di trovare una risposta e un colpevole e accontentare l’opinione pubblica che vuole giustizia può giocare brutti scherzi a tutti.
A suo avviso, questa storia avrà risvolti negativi sulla voglia di riscatto che si è fatta sentire più forte proprio dopo la strage di via d’Amelio?
È inquietante per la coscienza civile di tutti, per i siciliani e per gli italiani in generale scoprire che c’erano persone in carcere che erano innocenti rispetto a quel crimine. In Sicilia da tempo la situazione è un po’ cambiata: i colpi inferti all’organizzazione militare della mafia sono stati duri e hanno inciso nello scontro frontale a favore dello Stato. Però, con cruda franchezza, non credo che ci sia al momento un tale slancio verso la legalità che possa essere stroncato dal sapere che questo processo è stato sbagliato.
Perché pensa questo?
Le radici della mafia sono dure a morire. Già è successo anche in passato, malgrado i colpi inferti, le radici non sono state spezzate e la mafia è rifiorita. Purtroppo, il tessuto generale della società siciliana non ha pienamente assorbito una coscienza civile dello Stato, della legge. Anzi, forse il resto dell’Italia ha diminuito il suo senso civile. Si è verificata la triste profezia di Sciascia: tutta l’Italia sta diventando Sicilia. Questo è preoccupante. Come diceva la bella nota della Conferenza episcopale italiana del 1991 Educare alla legalità, noi dobbiamo riscoprire non la legalità come mera obbedienza delle leggi che a volte si presentano astratte dal contesto reale o come frutto di interessi particolari, ma dobbiamo riscoprire la legalità come senso del bene comune, in nome del quale anche le leggi debbono essere fatte. La voglia di legalità in Sicilia è aumentata rispetto ai fenomeni macroscopici, ma poi i mafiosi continuano a chiedere il pizzo e la gente a pagarlo, in certi quartieri esiste ancora di fatto il controllo mafioso e comunque in troppi settori persistono logiche estranee al bene comune. E la mafia su questo prospera e fiorisce. A tutto ciò dobbiamo opporci.
La Chiesa può giocare un ruolo importante per risvegliare le coscienze?
Resta compito della Chiesa creare coscienze nuove, coscienze diverse. Su questo io punto più che sui processi. Io credo più nell’opera educativa per la ricostruzione della società, e in questo ha un ruolo di primo piano la Chiesa, piuttosto che nella pura repressione legale, che ha i suoi successi, ma non basta se non si cambia la mentalità. Perciò, bisogna intervenire sull’educazione, come dicono i nostri vescovi, creando un nuovo ordine interiore prima che esteriore. Tutte le leggi e le spedizioni militari, anche riuscite, da sole non cambiano alla radice la situazione.