Per il Governo creare una stretta integrazione fra ospedale e territorio è una priorità. L’opinione di Virginio Marchesi, già docente alla Cattolica e presidente della sezione di Milano dell’Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale

di Maria Elisabetta Gramolini
Agensir

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Per il Ministero della Salute e per il Governo creare una stretta integrazione fra ospedale e territorio è una delle priorità. Non fosse altro per non perdere i miliardi di euro messi a disposizione dal Pnrr per l’incremento dell’assistenza domiciliare. Da superare, però, non è solo l’ostacolo della frammentarietà dell’offerta sanitaria di regione in regione, ma anche la necessità di fare i conti con la carenza di operatori sanitari formati.

Un tassello importante è dato dall’avvio della riforma delle politiche per anziani e non autosufficienti, contenuta nel disegno di legge delega varato da Palazzo Chigi. Con la riforma si vuole spostare il grosso degli interventi sanitari e sociali verso la dimensione domiciliare, alleggerendo anche il carico sulle strutture del sistema sanitario. Non programmare anche l’aumento del numero degli operatori necessari nei prossimi anni sarebbe un errore per Virginio Marchesi, già docente all’Università Cattolica e presidente della sezione di Milano dell’Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale (Uneba), voce di oltre mille enti del comparto socio-sanitario e sociale, quasi tutti non profit di radici cristiane.

Professore, il ministro della Salute Ignazio Schillaci pochi giorni fa ha dichiarato che entro il 30 giugno 2026 il 10% della popolazione di età superiore ai 65 anni, rispetto all’attuale media di circa il 5% relativa alle diverse regioni italiane, avrà accesso alle cure domiciliari. Un traguardo possibile per lei?
L’assistenza domiciliare per i non autosufficienti si pone come un tema centrale per realizzare la qualità della vita, che passa dal riuscire a spostare l’attenzione dalle fragilità alla persona. La fragilità evoca alcuni bisogni e attività, ma non si pone il problema del complesso della persona nelle sue modalità relazionali, affettive di dipendenza da un accudente familiare o professionale. Il primo problema dell’assistenza domiciliare è riuscire a realizzare un servizio che risponda alla domanda di che cosa ha bisogno quella persona. La risposta non può essere una mera analisi del bisogno sanitario o di cure avulso dal contesto in cui risiede. L’assistenza domiciliare dovrebbe tenere a mente la qualità della vita, la prossimità come luogo fisico e dimensione relazionale-emotiva, affinché le persone e le famiglie vivano i servizi vicini a loro anche sul piano relazionale. In più è fondamentale un sistema di multiservizi, cioè riuscire a creare un continuum che riesca a prevedere diverse forme di assistenza che si integrano in considerazione delle situazioni. La cronicità evolve nel tempo e ha bisogno di servizi che mutano. Per questo non è possibile pensare al sistema delle Rsa come unica alternativa al domicilio.

Un Servizio sanitario nazionale non deve solo offrire un’assistenza sanitaria, ma anche globale e personalizzata sui bisogni?
Un tema centrale è chiedersi: quello che offro è una summa di prestazioni, attente alla dimensione funzionale e alla fragilità, o è una serie di sostegni mirati al contesto relazionale? Se modulo l’assistenza come una risposta di natura sociosanitaria, l’intervento sarà soprattutto di natura infermieristica-riabilitativa, ma non toccherà l’elemento relazionale legato alla qualità della vita. Se invece nell’assistenza domiciliare includo anche prestazioni e attività sociali che tendono a sostenere la relazione fra l’accudente e l’accudito, allora userò modelli di analisi e di intervento differenti. Nel primo caso mi interessa valutare il bisogno della persona in termini di risposte sociosanitarie, nel secondo, allargo alla natura sociale e relazionale.

La riforma per gli anziani e non autosufficienti va in questa direzione?
Nell’ipotesi di riforma si affronta il problema dell’unificare i due servizi dell’assistenza domiciliare. La vita al proprio domicilio funziona infatti solo se c’è un continuum che va dalla casa a forme di residenzialità modulate a seconda del bisogno che garantiscono il non dover ricorrere a modelli prestazionali eccessivamente onerosi e impropri. In quel modello, va superato il tema della risposta dell’Assistenza domiciliare integrata (Adi) come unico elemento su cui governare l’assistenza socio sanitaria per introdurre il servizio di assistenza domiciliare unificato. Un modello cioè in cui un unico progettista si confronta con la persona e affronta il tema della qualità della vita e le aspettative.

I soldi del Pnrr permettono di aumentare la quantità di prestazioni, anche a regime, a partire dal 2027?
Se dovessimo investire in modo deciso su territorio e assistenza domiciliare non le avremmo le risorse per farlo. Un sistema sanitario nel quale le risorse si riducono e si contraggono tende a rispondere di più alle emergenze e all’ospedale invece che alla cura delle persone più fragili e deboli. Se si vuole rilanciare, bisogna reinvestire in queste politiche. Il punto critico è proprio questo: la domiciliarità nel Pnrr è concepita come un erogatore pubblico, cosa che non è indifferente in alcune regioni dove attualmente invece è assai rilevante nell’assistenza domiciliare il ruolo degli enti non profit, tra cui molti enti Uneba. Le condizioni giuste per la tempesta perfetta.

Si rischia quindi di non avere le risorse necessarie per attuare le riforme…
Avremo in futuro il problema della carenza delle risorse economiche e del personale, cruciale già oggi. Se raddoppiamo le persone destinatarie e modifichiamo la struttura organizzativa dalle prestazioni alla presa in carico dovremmo allo stesso modo moltiplicare il numero degli operatori. Bisogna vedere se siamo capaci di programmare un tale cambiamento.

 

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