Il vertice di Bratislava si chiude con una serie di proposte su migrazioni, sicurezza, lavoro. Sullo sfondo emergono le divisioni tra gli Stati
di Gianni BORSA
Come sempre accade in politica, si può vedere il bicchiere mezzo vuoto oppure mezzo pieno. E si può anche stabilire a priori – succede di frequente – di bocciare un’iniziativa ancora prima che si svolga, sotto il segno del “non cambia mai nulla”. Anche il vertice informale dei 27 capi di Stato e di governo Ue, svoltosi venerdì nel castello di Bratislava, ricade sotto questi schematismi. Molti commentatori lo avevano snobbato sin dall’inizio e oggi confermano il giudizio; altri cercano a tutti i costi di cavarne qualcosa di buono. Il passaggio dell’Ue – ormai priva del rappresentante britannico, che nessuno ha rimpianto – nella capitale slovacca ha rimarcato divisioni interne latenti, ma ha almeno segnato un “esame di coscienza” collettivo ormai irrinunciabile.
Nella “Dichiarazione di Bratislava” che ha concluso il summit si legge: «Ci riuniamo in un momento critico per il nostro progetto europeo», in cui si è svolta «una diagnosi comune dello stato dell’Ue» e una «discussione del nostro futuro comune». Una riflessione doverosa, spiega il documento conclusivo, per via del Brexit e delle paure che attraversano i popoli: «Dobbiamo concentrarci sulle aspettative dei cittadini, mettendo in discussione con grande coraggio le soluzioni semplicistiche proposte da forze politiche estremiste o populiste». Resta una convinzione sottoscritta all’unanimità: «L’Ue non è perfetta ma è lo strumento più efficace di cui disponiamo per affrontare le nuove sfide che ci attendono».
Uniti, dunque, ma frenati dagli stessi timori dei cittadini e paralizzati dalla marea populista che cresce dal basso e che spesso è alimentata dai leader nazionali. Timori che alimentano le divisioni. Renzi non si presenta alla conferenza stampa congiunta con Merkel e Hollande, dicendosi insoddisfatto sui capitoli delle migrazioni e dell’austerità: il premier italiano ha ragioni da vendere, anche se isolarsi da Berlino e Parigi e puntare il dito contro il fiscal compact e il surplus commerciale della Germania può essere politicamente molto pericoloso. E distanze profonde emergono tra Paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) ed Europa continentale e mediterranea; tra Paesi del Nord, che si ritengono sempre i più “virtuosi”, e quelli in costante affanno economico e di bilancio; tra europopolari ed eurosocialisti…
La “tabella di marcia di Bratislava”, che vorrebbe concretizzare i principi della “Dichiarazione”, tocca una serie di nodi vitali per l’Europa: migrazioni, frontiere, sicurezza interna ed esterna, lotta al terrorismo. Confermando l’idea di una Ue che si sente assediata e che non trova lo scatto di reni per rafforzare i legami interni e presentarsi con un volto attraente ai suoi cittadini, «preoccupati – vi si legge – dalla percezione di una mancanza di controllo e da paure riguardo a migrazione, terrorismo e insicurezza economica e sociale». È il vocabolario ricorrente di un’Europa che invecchia, si chiude in sé e crede di poter lasciare fuori dalla porta le sfide della globalizzazione, di fronte alle quali occorrono processi di governo condivisi e non muri. Ma come spiegarlo a leader nazionalisti come Orban (Ungheria) Fico (Slovacchia), Szydlo (Polonia)?
Sulle migrazioni, infatti, la “road map” insiste sulle chiusure e sullo stop ai “migranti irregolari”, senza un accenno al fatto che nel mondo ci sono decine e decine di milioni di persone in fuga da guerra, fame e disastri naturali (se ne parla oggi all’Onu). «Non sono affar nostro», deve aver pensato qualche leader convenuto a Bratislava. Per cui la risposta ai flussi si limita al controllo delle frontiere e si rivolge agli accordi con la Turchia e offre soldi ai Balcani: il cimitero-Mediterraneo e Lampedusa devono essere finiti nel dimenticatoio, assieme al principio di solidarietà che dovrebbe tenere insieme l’Ue. Il tema della migrazione “regolare”, di cui l’Europa coi capelli bianchi avrebbe bisogno, non è neppure citata. Con i Paesi di origine e di transito dei flussi si parla di «patti sulla migrazione per la cooperazione e il dialogo» volti «alla riduzione dei flussi di migrazione illegale e all’aumento dei tassi di rimpatrio»: la cooperazione alla sviluppo è tornata nel cassetto…
Se il capitolo sulla sicurezza non offre novità di rilievo, quanto meno appare nella “road map” una paginetta sullo “sviluppo sociale ed economico – giovani” con una serie di provvedimenti da decidere e attuare che potrebbe in effetti avere ricadute positive su formazione, lavoro, mercati.
I leader si dicono pronti a «concretizzare le promesse» rafforzando «l’attuazione delle decisioni adottate»: meglio tardi che mai! Tra le tappe che li attendono per dar corso agli impegni nuovamente assunti figurano i summit ordinari di ottobre e dicembre, un nuovo vertice straordinario a La Valletta a inizio del prossimo anno. Infine: «Le celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma nel marzo 2017 saranno l’occasione per riunire i leader a Roma e serviranno per completare il processo avviato a Bratislava e delineare insieme orientamenti per il nostro futuro comune».
Bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno?