Il 24 febbraio è il primo anniversario dell'invasione russa. Nelle prossime settimane la situazione potrebbe ulteriormente aggravarsi: il parere di Alessandro Colombo, esperto dell'Ispi
di Lorenzo
Garbarino
Nelle prime ore del mattino del 24 febbraio 2022, dai cieli dell’Ucraina cala uno stormo di caccia russi che bombarda a tappeto il Paese. È l’inizio di un conflitto che ora arriva al suo primo anno di combattimenti, durante il quale la guerra ha toccato fronti militari, energetici ed economici, ma ancora non conosce un vincitore.
E non è detto che, al termine dello scontro, l’equilibrio geopolitico trovi una nuova armonia, secondo Alessandro Colombo, ordinario di Relazioni internazionali all’Università degli Studi di Milano e responsabile del programma Relazioni transatlantiche dell’Istituto studi di politica internazionale (Ispi).
A un anno dall’inizio, a che punto si trova questo conflitto?
È una domanda alla quale non possiamo rispondere. Tutto lascia pensare che ci troviamo in una fase potenzialmente decisiva. Tutti si aspettano un’escalation militare nelle prossime settimane e probabilmente, purtroppo, ci sarà. Non possiamo dire altro, perché non conosciamo l’estensione che avrà alla fine questo conflitto. Non siamo in condizione di valutare le conseguenze politiche. Alcune le vediamo già, naturalmente, ma alcune dipenderanno dall’esito che ancora non conosciamo. Anche gli esperti militari sono molto cauti nel fare previsioni sul futuro andamento della guerra.
Quanto si è ridimensionata l’immagine della Russia e di Putin dopo l’invasione?
La Russia ha sofferto un enorme danno reputazionale. Teniamo inoltre conto che la Russia è il Paese che ha perso di più in termini di potere e di prestigio a partire dalla fine degli anni ‘80. Quindi questo è stato probabilmente da parte di Putin un tentativo di conservare quello che restava dello status di grande potenza della Federazione Russa. Al momento la guerra in Ucraina sembra avere profondamente pregiudicato non soltanto l’immagine, ma anche la realtà della Russia come grande potenza. Quindi, la Russia in generale e Vladimir Putin in particolare, escono fortemente ridimensionati fino a questo momento dalla guerra.
E di Biden?
Su questo mi darei del tempo. C’è un trionfalismo nei Paesi occidentali sull’andamento della guerra che trovo un po’ precipitoso, forse anche avventato. Biden rischia di trovarsi di qui a pochi mesi in una situazione complicata. Ed è la ragione per cui gli Stati Uniti e altri Paesi sperano che la guerra si concluda il prima possibile. Se dovesse prolungarsi, ed è possibile che sia uno dei calcoli della Russia di Putin, il Paese si troverà in enormi difficoltà davanti all’opinione pubblica americana nel giustificare per quale ragione gli Stati Uniti debbano continuare a impegnarsi in una guerra regionale europea contro la Russia, invece che fare quello che promettono da 15 anni, cioè spostare il baricentro della propria politica estera nell’indo-pacifico.
L’Occidente finora ha inviato ingenti aiuti economici e militari. Per quanto sarà ancora così?
Questo appunto è il problema. Difficilmente potrà durare ancora molto a lungo senza produrre tensioni all’interno dei rispettivi Paesi. Credo sia anche una delle ragioni per cui da alcune settimane Zelensky continui a insistere sul fatto che la guerra durerà poco. La durata della guerra avrà un effetto decisivo sulla tenuta del supporto occidentale all’Ucraina e potenzialmente anche sull’esito della guerra stessa.
Entrando nello scenario delle ipotesi, cosa potremmo immaginare in caso di una capitolazione dell’Ucraina?
È chiaro che tutto quello che abbiamo detto fino a questo momento andrebbe capovolto. La Russia ne uscirebbe con un grande aumento del proprio prestigio, mentre i Paesi europei e gli Stati Uniti ne uscirebbero quasi devastati. Questa è una delle ragioni per cui, purtroppo, la guerra sembra destinata a durare. Tutte le parti in causa, quelle che combattono direttamente o che sostengono le parti, hanno messo in gioco la propria reputazione. E una volta fatto ciò, è molto difficile accettare di rinunciare alla partita. Potremmo dire che è una trappola che è scattata dietro le spalle di tutti i contendenti.
E infatti, quanto ha da perdere la Russia in caso di sconfitta?
Tantissimo, e tutti si dovrebbero interrogare su quanto convenga che la Russia perda. Credo che questa sia o debba essere una delle principali preoccupazioni. Un conto è, come tutti sostengono, essere convinti della giustizia e della necessità di punire la Russia per l’aggressione. Ma dal punto di vista politico bisogna stare molto attenti a non risolvere un problema creandone uno peggiore, che sarebbe la trasformazione della Russia in un enorme Stato fallito, e cioè l’apertura di una nuova fascia di instabilità ai confini dell’Europa e dell’Occidente oltre a quelle già aperte, come quelle che presumibilmente si apriranno nella sponda sud del Mediterraneo nei prossimi mesi e anni. Credo che sia un elemento di cautela e infatti è uno degli argomenti sui quali torna periodicamente il presidente francese Macron: ammonisce a non andare troppo avanti, cioè a non portare la Russia a un grado di umiliazione tale da poter rendere il Paese un problema per tutti.
In caso di rimozione di Putin, assisteremmo a una democratizzazione della Russia?
Credo sia difficile rispondere. Direi che la cosa più improbabile è la trasformazione della Russia in uno Stato democratico-liberale, per la semplice ragione che non mi sembra che ci sia in vista una leadership democratico-liberale pronta a ereditare il Paese. Le alternative più probabili sono la nascita di una nuova leadership probabilmente nazionalista o comunque anti occidentale. L’altra prospettiva, che credo dovrebbe essere considerata la più preoccupante di tutte, è una crisi radicale della Federazione Russa che porti addirittura alla riattivazione di spinte disgregative come quelle che erano in atto all’inizio degli anni ‘90. Questo sarebbe un affare pessimo per tutti.
Anche per la Cina?
La Cina è interessata al fatto che questa guerra non esacerbi più di quanto non abbia già fatto i rapporti e la competizione con gli Stati Uniti, alla quale non è ancora preparata. Questa è l’unica preoccupazione della Cina, che vede nella guerra in Ucraina il rischio di un definitivo aggravamento delle relazioni, fino a rendere il conflitto con gli Stati Uniti pressoché inevitabile. A maggior ragione per il comportamento dell’amministrazione Biden molto più aggressiva di quella di Trump. La definirei quasi un’amministrazione bellicosa. La Cina vede con grande preoccupazione questa attivazione politica, già avvenuta anche nel nostro linguaggio, della frattura tra democrazia e autocrazie. Questa distinzione è una bandiera di guerra. E la Cina la interpreta correttamente in questo modo.
Come va interpretata la sospensione di Putin del trattato Start sulle armi nucleari?
È semplicemente un’altra manifestazione di una rottura totale delle relazioni. Dal punto di vista politico non aggiunge nulla a quello che è già avvenuto: se c’era ancora qualche possibilità di risistemare i rapporti tra Russia e Nato in questo momento non esiste più. Ciò significa tutta una serie di misure ostili che una parte e l’altra assumono nei confronti dell’avversario. Non mi sembra che aggiunga niente di particolare dal punto di vista politico.
Che percezione si ha del conflitto in Italia?
La sensazione è che ci sia da un lato un grande consenso, maggiore rispetto a conflitti del passato. Forse qualcuno ha la memoria corta, ma sarebbe il caso di ricordare come l’Italia si divise in occasione della guerra del Golfo del 1991, o per il Kosovo nel 1999. Il mondo politico italiano di fronte alla guerra in Ucraina mi sembra che abbia reagito in modo molto unitario. Il problema è che buona parte dell’opinione pubblica non sembra avere la stessa percezione del conflitto del mondo politico e giornalistico. Si è aperta per l’ennesima volta una frattura, uno dei motivi di periodico imbarazzo dei giornali e dell’establishment politico. Riconosco infatti un disallineamento tra la fortissima omogeneità nella lettura della guerra offerta dalla grande stampa e dal mondo politico e una molto maggiore eterogeneità che sembra dominare l’opinione pubblica.