L’impressione è che l’improvvisazione si sia impadronita della Casa Bianca. Gli unici risultati raggiunti finora sono un aumento della tensione a livello internazionale e un crescente isolamento degli Stati Uniti
di Stefano COSTALLI
Non mancano certo gli spunti e le occasioni di commento nel primo mese di Donald Trump alla guida della politica estera statunitense. Con lo stile decisionista che lo caratterizza, il nuovo presidente è intervenuto su quasi tutti i dossier più importanti ereditati dall’amministrazione Obama.
Nonostante questo iperattivismo, è difficile riuscire a capire la direzione in cui si sta muovendo la politica estera americana.
Per il momento, l’impressione è che l’improvvisazione si sia impadronita della Casa Bianca. Manca un disegno coerente e gli unici risultati raggiunti finora sono un aumento della tensione a livello internazionale e un crescente isolamento degli Stati Uniti, derivante non tanto da scelte ponderate da parte americana, ma come conseguenza di azzardi e dichiarazioni estemporanee.
Prendiamo, ad esempio, il Medio Oriente, tallone d’Achille della politica estera di Obama. Trump aveva dichiarato di essere contrario agli interventi nella regione, agli sforzi di nation-building che impegnano ingenti risorse e personale americano sul campo per anni interi. Non essendo dal suo punto di vista un’area di vitale importanza per la sicurezza americana, Trump aveva professato una politica di sganciamento dal Medio Oriente. Il Presidente e i suoi consiglieri ritengono però che il fondamentalismo islamico sia il nemico numero uno dell’America e che quindi vada estirpato con ogni mezzo. Quali siano esattamente questi mezzi, per ora non è dato saperlo. Trump si è limitato a ordinare che il Pentagono fornisca rapidamente qualche idea valida, ma certamente sconfiggere l’Isis e sganciarsi dal Medio Oriente sono due obiettivi inconciliabili. Peraltro, gli Usa sono intervenuti per la prima volta in Yemen bombardando proprio un paio di settimane fa, altro segno che l’isolazionismo di Trump è un concetto piuttosto elastico.
Le stesse considerazioni valgono per il vertice con Netanyahu. Se Trump volesse davvero evitare le sabbie mobili della politica mediorientale dovrebbe evitare di farcisi trascinare da Israele, mentre ha ribadito con forza di essere al fianco di Israele, che considera un alleato fondamentale per gli Usa. Addirittura, si è spinto a dichiarare che l’obiettivo dei due Stati non è per lui imprescindibile, ma quale altra strategia abbia in mente per ottenere la pace fra israeliani e palestinesi non è chiaro.
Ciò che sappiamo con certezza è che Trump considera un pericolo l’Iran, mentre evidentemente deve essere sicuro che l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo Persico non abbiano niente a che fare con il sostegno all’Isis, dato che sono stati esclusi dal bando che vorrebbe impedire l’accesso sul suolo americano ai cittadini di altri Stati a maggioranza musulmana.
Visti i tanti grattacapi che gli sta procurando la Russia, a partire dalle dimissioni del proprio consigliere per la sicurezza nazionale, molti si aspettavano che Trump articolasse una solida strategia sui motivi (oltretutto esistenti) per stabilire buoni rapporti con Mosca, in base a reciproche necessità geopolitiche. Il rapporto fra Occidente e Russia negli ultimi anni si è deteriorato anche a causa di errori commessi dalla Nato e Putin sarebbe un alleato prezioso per sconfiggere l’Isis senza impegnare troppo le forze americane, ma Trump non ha sviluppato neppure questo tema, esponendosi ulteriormente alle accuse di voler buoni rapporti con la Russia solo per oscuri interessi privati e ottenendo il risultato di aver reso scettici gli stessi russi.
L’isolazionismo ambivalente di Trump si è manifestato con dichiarazioni caustiche pure nei confronti dell’Europa e della Nato, anche se il vicepresidente Pence si è affrettato a dichiarare l’Alleanza atlantica uno strumento irrinunciabile. Una svolta isolazionista più decisa è invece avvenuta sul fronte asiatico, dove Trump ha ritirato gli Usa dal trattato di libero scambio transpacifico «per proteggere i lavoratori americani». Se però gli Stati Uniti vogliono contenere l’egemonia cinese, devono sostenere i propri alleati in Asia, non indebolirli e inimicarseli. Oltretutto, ogni volta che si impongono barriere al commercio, gli americani a basso reddito spendono di più per comprare beni prodotti spesso in Asia, mentre gli eventuali benefici sull’occupazione impiegheranno anni a manifestarsi perché cambiare i meccanismi di produzione globalizzati è complesso e costoso.
Trump ha il tempo per cambiare rotta, ma se non lo farà a breve ci attende un periodo di instabilità e incertezza che non gioverà a nessuno, neppure agli Stati Uniti.