Nell'editoriale de «Il Segno» di novembre le parole di allora di Giovanni Paolo II e le nuove barriere, fisiche e ideali, che ancora oggi dividono Paesi e popoli

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di Giuseppe GRAMPA
Direttore de «Il Segno»

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Ho chiesto ad alcuni ragazzi della mia parrocchia se conoscevano la “cortina di ferro”: ignoranza assoluta. La mia generazione invece ha conosciuto questa “frontiera” che separava i Paesi del blocco sovietico dagli altri Paesi europei. Non era di ferro, né di pietre, eppure erano due mondi. L’Europa era come un corpo con due polmoni che non respiravano insieme. Il sogno di Giovanni Paolo II – il Papa polacco venuto da uno dei Paesi del blocco sovietico – era proprio quello che i due polmoni respirassero insieme.

Papa Wojtyla ha visto compiersi il suo sogno il 9 novembre 1989, quando il muro che divideva Berlino – costruito il 13 agosto 1961 – venne abbattuto. A 25 anni dalla caduta del Muro papa Francesco disse: «Nella caduta del Muro di Berlino san Giovanni Paolo II ebbe un ruolo da protagonista… Quel Muro è stato simbolo della divisione ideologica dell’Europa e del mondo intero… Dove c’è un muro c’è chiusura dei cuori. Servono ponti e non muri». Ricordo che proprio quest’ultima parola, già detta da papa Wojtyla, stava su un grande striscione nella piazza centrale di Betlemme.

Del Muro di Berlino scriviamo sul Segno di novembre, persuasi che solo tenendo viva la memoria si possono evitare gli errori del passato. Ma siamo degli inguaribili smemorati e davvero la storia non è stata maestra per tanti Paesi che, in questi anni, hanno continuato a costruire barriere. Per un muro abbattuto altri, almeno una decina, ne sono stati costruiti.

Già nel 1994 il presidente americano Bill Clinton fece costruire una barriera in lamiera per impedire ai messicani l’ingresso negli Stati Uniti. Adesso Donald Trump intende edificare una barriera lunga 3 mila chilometri, fatta di pali d’acciaio alti 12 metri e dalla cima appuntita. Nel 2002 Israele ha costruito 700 chilometri di muro per rinchiudere i territori palestinesi e impedire l’ingresso in Israele di eventuali terroristi: questa la ragione “ufficiale”. Più volte ho attraversato quel muro (sopra a destra), recandomi da Gerusalemme a Betlemme, che è appunto situata in territorio palestinese. Un muro che in certi punti passa tra le abitazioni e che mani esperte e coraggiose di writers hanno istoriato con disegni e scritte: così il muro della vergogna è diventato un colorato manifesto alla fratellanza.

Questi esempi hanno trovato seguito in Europa e non solo. Nell’estate del 2015, al confine tra Ungheria e Serbia, sono stati posti 170 chilometri di filo spinato. Un secondo muro lungo 348 chilometri è stato voluto dal presidente ungherese Viktor Orban tra il suo Paese e la Croazia: il 2 maggio scorso l’allora ministro degli Interni Salvini ha visitato quel muro esprimendo il suo apprezzamento. Nel 2015 la Macedonia ha eretto una barriera per impedire l’arrivo dei profughi del Campo greco di Idomeni. Anche la Spagna vuole difendersi dall’arrivo di africani attraverso le due enclaves spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco: una doppia recinzione, alta 6 metri e lunga alcune decine di chilometri con un camminamento interno, è sorvegliata dalla Guardia Civil spagnola. In Africa nel 2003 una barriera metallica ed elettrificata, lunga 500 chilometri e alta due metri, tenta di impedire lo sconfinamento di profughi dallo Zimbabwe in Botswana. Analogamente in Arabia Saudita il sovrano intende costruire 900 chilometri di barriera al confine con lo Yemen.

Il nostro Paese, che gode della bellezza di migliaia di chilometri di coste bagnate dal Mediterraneo, non ha costruito muri, ma ha chiuso i porti. Conosciamo fin troppo bene questa vicenda e non ho la presunzione di dare risposte sbrigative a un problema tremendamente complesso. Ma mi risuona sempre nella mente e nel cuore la parola dell’apostolo Paolo: «Gesù infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne» (Ef 2,14).

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