Questa mattina una violenta ondata di scosse ha provocato altre 15 vittime e nuovi danni
Si sperava che il peggio fosse passato. Così non è stato. Una nuova ondata di violente scosse ha colpito questa mattina l’Emilia: 5,8 gradi Richter alle 9; 5,3 alle 12.55 e 5,2 alle 13. Mirandola, Medolla e Cavezzo sono nomi che, in breve, hanno fatto il giro del mondo, come la scorsa settimana si parlava di Sant’Agostino Ferrarese e San Felice sul Panaro. Questa volta non era notte e, soprattutto, il nuovo terremoto ha sferrato un colpo devastante alla terra emiliana già ferita.
Si sperava di non dover più piangere uomini o donne morti nel crollo dei luoghi dove lavoravano. Non è così: almeno 15 sono le nuove vittime, diverse delle quali rimaste proprio sotto le macerie di quei capannoni dove ogni giorno passavano le ore necessarie a garantire sostentamento alle loro famiglie e a dar ragione dell’operosità di questo lembo d’Emilia, benché anche qui la crisi avesse fatto sentire i suoi morsi. Tra le vittime da registrare pure un sacerdote, don Ivan Martini, parroco a Rovereto sul Secchia: era rientrato in chiesa per verificare i danni e portare al sicuro la statua di Maria quando è stato colpito da una pietra.
Si sperava di poter mettere in sicurezza quanto era rimasto di chiese e campanili, torri e castelli, patrimonio secolare di queste terre, identità e cuore di queste comunità. Lo speravano gli abitanti di San Felice sul Panaro, la cui torre dell’orologio ha seguito, stamattina, la triste sorte della “Torre dei modenesi” di Finale Emilia. Lo speravano i parroci e le comunità che da generazioni si ritrovavano nelle pievi di campagna. Uno tra tutti, don Carlo Bellini, parroco di Mortizzuolo, la scorsa settimana spiegava come il continuare dello sciame sismico aggravasse la situazione. La punta del campanile era crollata sfondando il tetto e finendo sull’altare, e «a ogni nuova scossa ne cade un pezzo», raccontava, auspicando che si potesse giungere a un punto fermo, che le scosse terminassero in modo da poter “mettere in sicurezza” quel campanile che chi percorre la strada per giungere al paese vede (anzi, vedeva) fin da lontano. Ora il campanile non c’è più, come altri campanili, chiese, case.
La gente ha paura, non sa più cosa sperare, cosa aspettarsi. Già la scorsa settimana aveva paura a rientrare nella propria casa, anche se era stata dichiarata agibile; ancor più ha paura adesso e preferisce una tenda ai muri. Si sente smarrita, vede sgretolarsi quei punti di riferimento – la chiesa, la casa, il municipio – che per ciascuno sembrano inossidabili. Eppure, nel dolore e nella difficoltà si fa anche esperienza della solidarietà, dell’aiuto reciproco, di piccoli e grandi gesti che portano a riscoprire legami d’affetto, d’amicizia, di vicinanza che la vita quotidiana pare nascondere.
Anche la fede sembra venire riscoperta, come testimoniavano in questi giorni le messe feriali affollate, benché in luoghi di fortuna, o la partecipazione ai rosari in più luoghi organizzati per il mese mariano. Oltre le macerie c’è una speranza che non può venir meno, con la quale non c’è avversità che non possa essere affrontata, casa o chiesa che non possa essere ricostruita.