Che fare? Guardare alla realtà. Ci sono ancora storie di successo. Ma l’informazione generalista e generica, dal sapore piatto e standardizzato, è agli sgoccioli
di Nicola SALVAGNIN
Se la notizia della morte della stampa appare fortemente esagerata, è certo ed innegabile che l’editoria stia passando tempi cupi, qui come altrove. Si pensi solo che i principali quotidiani italiani vendono meno della metà di quanto riuscivano a fare un decennio fa.
Le analisi, nel corso di questi anni, si sono sprecate: certamente un declino già manifestatosi, è stato acuito dall’avvento dell’on line e di molta informazione reperibile gratuitamente e immediatamente. Ma la realtà è un’altra: già prima, con la tivù imperante, l’informazione era fruibile in modo gratuito e più rapido rispetto alla carta stampata. Quindi la verità è che sta venendo meno proprio il bisogno di un certo tipo di informazione, non si sente più l’urgenza di “sapere le cose” quando queste – almeno grossolanamente – le veniamo a conoscere comunque.
L’editoria “classica”, negli anni scorsi, aveva cercato di porre rimedio buttandosi appunto nell’on line, con siti via via migliorati sotto l’aspetto qualitativo e quantitativo. Ma c’è un “ma” grosso come una casa: non rendono un euro. Appena s’innalza un firewall (insomma un sistema per farsi pagare per accedere all’on line), i lettori-consumatori spariscono. La pubblicità non trova più di tanto attraente internet, le copie digitali e gli abbonamenti sono una nicchia dentro la nicchia di chi acquista informazione: solo un po’ più numerose laddove i contenuti informativi sono pregiati o esclusivi, come nell’informazione economica o di opinione.
Morale della favola: in un decennio, l’editoria americana ha perso 30 miliardi di dollari di ricavi, guadagnandone 2 dall’on line. Un dollaro recuperato ogni 15 persi: chiaro che ormai siamo alla certezza che non è da questa strada che si possono recuperare ricavi. E infatti l’unica politica perseguita dal mondo editoriale nel corso di questi anni è stata quella del taglio dei costi (licenziamenti, prepensionamenti, chiusure di redazioni e uffici, accorpamenti, smantellamento di strutture tecnologiche…).
Che fare, allora? Guardare alla realtà. Non si possono tenere in piedi strutture che fanno perdere solo soldi, e non è un caso che i grandi gruppi editoriali italiani (e non solo) stiano ripensando la loro presenza nell’on line. Ma soprattutto va capito che ha un mercato solo l’informazione che trova mercato, incontra i desideri e i bisogni degli acquirenti: quindi cronaca locale, opinioni e approfondimenti, informazione tecnica pregiata, in genere tanta qualità. E qualità s’intende: sia il reperimento e approfondimento delle news, sia la capacità di “scriverle”, di confezionare il prodotto nel miglior modo possibile. Superando pigrizie (ah che bello riempire le pagine di commenti calcistici di tre giorni dopo e di finte beghe politiche) e un livello di professionalità spesso non eccelso da parte dei giornalisti stessi. Con la consapevolezza che questo on line è una cozza che vive addosso alla carta: laddove negli Usa chiude un giornale locale, nel giro di pochi mesi chiude tutta l’“informazione” on line.
Qui, come nel resto del mondo libero, l’editoria “buona” regala ancora storie di successo, fatturati interessanti, un pubblico attento, la capacità di guardare avanti. Sapendo che – per i giornali come per le radio e le tivù, passando per l’on line – bisogna aver ben chiaro chi sia il tuo possibile “cliente” e cosa voglia da te. Il tempo dell’informazione generalista e generica, dal sapore piatto e standardizzato, quello sì è agli sgoccioli.