Il “non uccidere” vale sempre e per tutti: anche per se stessi. Le valutazioni di teologi ed esperti
a cura di Giovanna PASQUALIN TRAVERSA
«L’atto suicida di Lucio Magri va considerato come assolutamente negativo sotto una duplice prospettiva: etica e pedagogica», ma ciò «non toglie nulla, anzi rafforza, il rimando della fede alla misericordia di Dio, che solo legge nel cuore dell’uomo». Così monsignor Mauro Cozzoli, ordinario di Teologia morale nella Pontificia Università Lateranense, commenta la morte del giornalista e politico italiano, 79 anni, tramite suicidio assistito in una clinica svizzera.
«Le cronache dicono che il gesto è stato lucidamente voluto e attuato – prosegue Cozzoli – . Se così fosse, esso non sarebbe affermazione di libertà, ma abuso di libertà. L’autodeterminazione che sta alla base della scelta libera non è un potere assoluto, ma un potere regolato dal bene, un potere che si arresta sulla soglia del male. La vita, sia altrui che propria, è un bene indisponibile e inviolabile, così che sopprimerla non è nel potere della libertà» ma è piuttosto «un male morale che l’etica vieta». Per il teologo, il comandamento «non uccidere» vale sempre e «obbliga anche verso la propria vita». Della vita «non siamo arbitri e padroni, ma ministri e custodi».
Atto di arbitrio
Secondo mons. Cozzoli, «l’autodeterminazione al suicidio non è un atto di libertà, ma di arbitrio», perché, anziché misurarsi «con la verità e il bene morale», si misura «con l’autoreferenzialità dei soggetti». «Sotto il profilo pedagogico – spiega ancora il teologo -, un suicidio sbandierato come affermazione di libertà, addirittura della libertà più grande di fronte alla morte, ha un impatto deleterio sull’immaginario delle coscienze, specialmente dei più giovani e dei più deboli». Ne abbiamo avuto riscontro «qualche mese fa nell’apologia del suicidio del regista Mario Monicelli fatta da persone ben in vista, e dall’ampia risonanza mediatica da esse avuta».
L’apologia del suicidio, è il monito di monsignor Cozzoli, «concorre a ispessire e propagare quella libido moriendi che attraversa e penetra la cultura che respiriamo. Una cultura che, oggi più che mai, ha bisogno di testimoni e non di disertori della vita, specie quando la vita si fa fragile e gravosa». «Ciò – conclude – non toglie nulla, anzi rafforza il rimando della fede alla misericordia di Dio, che solo legge nel cuore dell’uomo cogliendone le intenzioni ultime e profonde. E insieme alla preghiera della Chiesa: preghiera che comprende tutti e tutti affida all’abbraccio di amore del Padre».
No a forme distorte di compassione
Per Lucio Romano, copresidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita, il suicidio assistito di Magri «turba profondamente e vanno evitate strumentalizzazioni che nulla hanno a che fare con una morte che ci invita a una riflessione non demagogica». «Ogni volta che un uomo si toglie la vita – prosegue Romano – è una sconfitta e una ferita per l’intera società che non ha saputo raccogliere il grido di sofferenza, dolore, solitudine che era stato lanciato, e che non è riuscita a prendersi cura di una persona nella massima fragilità».
Inoltre, per il copresidente di Scienza & Vita, «elogiare questo gesto estremo veicola un messaggio pericoloso e destabilizzante che vede l’eutanasia come unica soluzione alla depressione o ad altro. Giustificare e legalizzare l’eutanasia introdurrebbe nella società una cultura devastante, per cui la soluzione definitiva a problemi estremi sarebbe riposta nella morte volontaria assistita». «È davvero questo – conclude – il messaggio che si vuole lanciare a chi si trova in difficoltà? O piuttosto incentivare al suicidio non è che una forma distorta di compassione, una deresponsabilizzazione collettiva spacciata per filantropia?».
Inesistente diritto a morire
«Il suicidio è sempre un fallimento: della politica, della cultura, della società, dell’assistenza, forse anche – ed è la cosa più dura da ammettere – dell’amicizia e degli affetti. E come un fallimento va trattato. Non come una battaglia di civiltà – si legge in una nota del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica diretto da Adriano Pessina -. Mascherati sotto gli appelli al silenzio, alla pietas, al rispetto di una decisione personale, esponenti della cultura e della politica non hanno fatto mancare il loro giudizio avanzando una interpretazione politica di un gesto di disperazione umana che, per quanto possa essere compreso, non può essere né condiviso, né accettato».
Il fatto che la vita di Magri si sia consumata in una “clinica della morte” in Svizzera, afferma ancora il Centro della Cattolica, «pone in luce il radicale stravolgimento che subisce l’arte medica quando si presta ad avallare un inesistente diritto di morire: la morte non può mai essere considerata un bene da tutelare o da garantire», né «un “farmaco” somministrabile da un medico, il cui compito si dovrebbe riassumere nella cura del malato». Dall’Ateneo anche una dura critica al fatto che «molti mass media abbiano collegato la scelta di Magri con la depressione, definita malattia inguaribile, dimenticando quanto in realtà si sta facendo per curare le persone che soffrono di questa grave condizione patologica che non merita certo di essere stigmatizzata come anticamera del suicidio».