I casi di San Vittore non sono episodi isolati: in Italia più di un detenuto su quattro risulta in terapia psichiatrica. La preoccupazione delle cappellanie diocesane: i problemi mentali sono acuiti dalla permanenza in strutture incapaci di cura
di Paolo
Brivio
Non sono casi isolati. E non solo perché si sono verificati nel medesimo luogo (la casa circondariale di San Vittore, a Milano), a pochissimi giorni di distanza, tra fine maggio e inizio giugno. I suicidi di Abou El Maati e Giacomo Trimarco (leggi qui), insieme ai 27 altri verificatisi nelle carceri italiane da inizio 2022, hanno costituito la drammatica spia di un malessere assai esteso (e purtroppo incontrastato) nel mondo carcerario italiano, all’interno del quale – sono stime dell’associazione Antigone risalenti a fine 2020, certamente non migliorate nel frattempo – oltre un quarto degli oltre 50 mila detenuti risulta in terapia psichiatrica.
La corrosione della salute mentale dei detenuti è probabilmente il principale problema che affligge, oggi, il sistema carcerario nel nostro Paese. Ancor più del sovraffollamento, male meno acuto di un tempo, benché di nuovo in risalita. Sempre a inizio giugno, alcuni detenuti del carcere di Cremona, a causa della mancata somministrazione di uno psicofarmaco, hanno inscenato una protesta appiccando il fuoco alle celle: anche quando non arriva alle estreme conseguenze, il disagio psichico di tanti carcerati mette a repentaglio, oltre che la loro salute, il clima interno degli istituti di pena.
Misure inadeguate
Per occuparsi della salute mentale dei “ristretti”, chiudendo la vergognosa e ultradecennale pagina degli Opg (Ospedali psichiatrico-giudiziari), dal 2015 sono state aperte le cosiddette Rems (Residenze per le misure di sicurezza) e introdotte altre novità organizzative. Queste ultime, però, sono state sviluppate in maniera disomogenea, e in definitiva poco efficace, funzionali più a esigenze organizzative interne che alla necessità di assicurare il diritto costituzionale alla salute. Quanto alle Rems, che a differenza degli Opg avrebbero dovuto essere centri di cura e non di detenzione, il loro funzionamento si è dimostrato sempre inadeguato rispetto ai bisogni: i posti disponibili sono insufficienti, le liste d’attesa lunghissime, la durata media dei ricoveri crescente (dai 206 giorni del 2017 ai 236 di fine 2020).
Il problema riguarda l’intero Paese, e viene aggravato dalla difficile reperibilità di personale specialistico disponibile a operare nelle strutture detentive (e in alcuni casi addirittura dall’indisponibilità di personale medico generico). In Lombardia, il problema della salute mentale in carcere è poi inasprito dalla scelta, assunta dalla Regione, di aprire una sola Rems nell’ex Opg di Castiglione delle Stiviere (Mantova), che per quanto replichi alcune storture del passato (cure non territorializzate, degenza lontana dalle famiglie, gigantismo della struttura in cui sono curate 151 persone) riesce a rispondere solo a poco più di un quarto delle esigenze di ricovero.
E così anche le cappellanie della diocesi di Milano hanno più di un motivo per denunciare, da tempo, la preoccupazione per l’ampliarsi dell’area del disagio e il moltiplicarsi dei casi critici, quelli che possono condurre a gesti estremi. L’allarme riguarda in particolare i molti soggetti multiproblematici (caratterizzati da doppia diagnosi, povertà estreme, mancanza di reti familiari) e chi è straniero (le questioni etnopsichiatriche sono poco conosciute anche dagli specialisti). Ma in generale una convinzione è ormai assodata: il disagio mentale, sovente all’origine dell’esperienza criminale, viene non attutito, come dovrebbe essere, ma reso ulteriormente instabile dalla permanenza in carceri incapaci di cura. Un infernale circuito vizioso, che bisogna affrettarsi a spezzare.
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