In «Perché il populismo fa male al popolo» il gesuita e Chiara Tintori illustrano origini, caratteristiche, pericoli e rimedi a un fenomeno che ormai caratterizza l’intera Europa
di Giuseppe
CAFFULLI
Rigurgiti nazionalisti, che nulla hanno a che fare con l’orizzonte del bene comune; necessità di ripartire con coraggio e fiducia dalla responsabilità, per costruire una buona politica capace di sconfiggere i sovranismi e i populismi che stanno intaccando la nostra democrazia.
Padre Bartolomeo Sorge, gesuita, classe 1929, direttore emerito di Aggiornamenti Sociali, testimone di una lunga stagione della politica italiana, spiega nel suo recente volume scritto a quattro mani con la politologa Chiara Tintori (Perché il populismo fa male al popolo, Edizioni Terra Santa, Milano), le origini e il profilo di un fenomeno politico che sta attraversando il continente. In poche parole, il populismo fa male al popolo «perché è privo del senso dello Stato e uccide il bene comune, perché è nemico della cultura dell’incontro, perché sacrifica l’apparire all’essere, perché specula sulle paure e sui problemi delle persone, perché agli occhi del populismo l’altro diviene un nemico».
Già direttore de La Civiltà Cattolica e ispiratore della cosiddetta Primavera di Palermo (dove ha diretto l’Istituto di formazione politica “Pedro Arrupe”), padre Sorge denuncia la superficialità con cui l’attuale politica, disintermediata e ossessionata oltremisura dal consenso, si pone di fronte ai problemi del nostro tempo: immigrazione, povertà, disoccupazione… Il metodo? Offrire ricette semplici e a buon mercato a questioni complesse, che richiedono equilibrio, ponderazione e competenza.
«L’equivoco di fondo del populismo – afferma il gesuita – sta nel ritenere che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo tutto intero, legittimando il comportamento trasgressivo dei leader eletti, che ambiscono a conquistare spazi di potere sempre maggiori».
La deriva populista, viene spiegato nel volume, è una costante storica dei periodi di forte incertezza. Con la crisi del 2008, che ha provocato una forte contrazione produttiva e un aumento costante delle disuguaglianze, si è acuito il disorientamento generale. La politica si è manifestata però incapace di dare risposte. I partiti tradizionali hanno perso capacità di rappresentanza e non si sono fatti intrepreti degli interessi dei cittadini. A questo quadro si è aggiunto un dato culturale: il sentimento di insicurezza (più percepita che reale) provocato dalle migrazioni, la diffidenza verso il «diverso».
Ecco allora che, in questo quadro, le forze politiche al governo («una la nuova élite che finge di essere ancora “popolo”») hanno buon gioco ad alimentare un clima sociale aggressivo e divisorio, con il solo scopo di conquistare spazi sempre crescenti di potere «in una perenne campagna elettorale».
Quale antidoto mettere in campo? Nel libro di padre Sorge e Chiara Tintori il suggerimento è di ripartire da «una pacata e chiara comprensione delle dinamiche fondative della politica», per uscire dalla retorica populista.
Occorre insomma riproporre l’attualità di un pensiero «altro» e «alto» della politica, come lo è il «popolarismo sturziano».
A cent’anni di distanza dall’Appello «ai liberi e forti» di don Luigi Sturzo, padre Sorge ci guida nella comprensione dei punti focali di una intuizione politica che ancora oggi sembra in grado d’iniettare gli anticorpi giusti nel corpo malato della nostra democrazia.
Il popolarismo sturziano nasce da una forte ispirazione etico-religiosa, ma è al contempo laico, riconosce il primato del bene comune ed è riformista. Una visione politica che oggi trova espressione nel magistero di Papa Francesco, che non smette di spronare alla «buona politica», eticamente e idealmente ispirata; ma laica, cioè orientata alla «cultura dell’incontro».
Per cambiare rotta occorre dunque ridare anima alla politica e aiutare la democrazia a ritrovare la sua dimensione etica, fondata sul valore della dignità della persona, sulla solidarietà, su un’idea di bene comune accogliente ed inclusivo.