La coordinatrice nazionale: “La Shoah, i bambini bruciati, la disumanità dei campi di concentramento sono stati possibili perché erano l’esito di un processo di esclusione e propaganda a lungo preparato. La vicinanza invece permette di capire quello che papa Francesco sta ripetendo: siamo tutti sulla stessa barca, nessuno escluso»
di Maria Chiara
BIAGIONI
«L’antisemitismo non è un problema degli ebrei. Riguarda tutti perché è un problema di convivenza civile, di rispetto dei diritti umani. Il Giorno della Memoria ci ricorda gli esiti estremi a cui una società può arrivare quando si accetta che qualcuno sia escluso dalla comunità». È la prima cosa che tiene a precisare Milena Santerini sul Giorno della Memoria, prima ancora di cominciare l’intervista. Docente di pedagogia all’Università Cattolica, vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah, esattamente un anno fa, il premier Conte le ha affidato il compito di “coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo”. «È stato un anno faticoso – dice tracciando un primo bilancio -. Abbiamo lavorato con un gruppo tecnico alla stesura di un documento che abbiamo presentato in questi giorni alla Presidenza del Consiglio». Sulla base della definizione di antisemitismo stabilita dall’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), – spiega – «è stata elaborata una strategia con una serie di raccomandazioni che le istituzioni italiane sono invitate ad adottare e applicare per contrastare i sempre più frequenti fenomeni di intolleranza e antisemitismo: atti di violenza, minacce, svastiche sui muri, linguaggio d’odio sul web, pregiudizio normalizzato nella vita quotidiana».
Partiamo dall’antisemitismo. Dal suo osservatorio, come si sta evolvendo?
L’antisemitismo per certi aspetti è mutato e per molti altri è anche aumentato, soprattutto nella forma dell’odio online. Il problema non riguarda soltanto l’antisemitismo ma un po’ tutte le forme di hate speech. C’è come una sorta di “liberazione della parola”, che viene facilitata nel web ed è intesa come facilità a cedere all’ostilità e fomentare l’odio per il diverso. Resistono anche forme di antisemitismo per così dire tradizionale, strutturato e organizzato.
Quale strategia proponete? Come si combatte l’odio?
Noi abbiamo proposto di combatterlo a livello di tutta la società. Abbiamo fatto delle proposte che riguardano sia gli aspetti normativi ma anche di formazione e di cultura, per cui si richiama in particolare il ruolo della scuola, dell’università, dello sport ma anche dei media. Siamo cioè convinti che vada fatto un grosso lavoro soprattutto sulla coscienza dei giovani, non solo informandoli su quello che è successo ma facendo capire come ci si è arrivati, ripercorrendo quella che noi chiamiamo la “piramide dell’odio”: alla base c’è un linguaggio di esclusione, di disprezzo e man mano che si sale, il discorso si fa sempre più grave fino a generare fenomeni di violenza e odio.
La pandemia come ha aggravato i fenomeni di hate speech?
Quando si vivono situazioni di disagio e crisi, si cerca sempre un colpevole, un bersaglio, un capro espiatorio. All’inizio erano i cinesi. Poi a un certo punto, sono riemersi miti atavici di odio sopito e a farne le spese sono stati anche gli ebrei. L’uso dei social aggrava il fenomeno: tutto oggi passa dal web. Ma dal web si veicolano anche messaggi positivi.
È possibile punire gli haters “da tastiera”?
In gran parte devo dire che si resta purtroppo impuniti. Gli attacchi devono diventare veramente eclatanti per poter perseguire gli esecutori. Talvolta capita addirittura che le vittime stesse possono diventare colpevoli. Non sarei così ottimista. Però, attenzione: c’è un cambiamento che sta avvenendo, soprattutto a livello delle grandi piattaforme che hanno cominciato a rendersi conto che il web non può diventare quella immensa prateria in cui tutti possono dire tutto. C’è quindi una certa coscienza e responsabilità.
Quale messaggio si sente di lanciare per il Giorno della Memoria?
Dico una cosa che al momento attuale di distanziamento sociale può suonare paradossale. Spero che ci si possa sempre più e sempre meglio guardare negli occhi. Perché se ci si guarda in faccia, diventa più naturale controllare il linguaggio, lo scherzo, lo stereotipo, il pregiudizio. Oggi ci chiediamo come siano stati possibili la Shoah, i bambini bruciati, la disumanità dei campi di concentramento. È stato possibile perché quell’orrore era l’esito di un processo di esclusione e propaganda a lungo preparato. Ed è stato possibile perché la gente non vedeva il male, era qualcosa di lontano. Ecco, la vicinanza ci permette di capire quello che papa Francesco proprio in questi mesi ci sta ripetendo e cioè che tutti, nessuno escluso, siamo sulla stessa barca.