Copre solamente un terzo degli oltre 4 milioni e mezzo di persone aventi diritto. Lo fa notare il presidente nazionale delle Acli e portavoce dell’“Alleanza contro la povertà”, Roberto Rossini
di Stefano
DE MARTIS
I dati diffusi recentemente dall’Istat documentano che la povertà, sia quella assoluta, sia quella relativa, nel 2016 è rimasta sostanzialmente stabile. Quindi non solo non è diminuita, ma se si osservano i dati nel dettaglio, risulta addirittura lievemente cresciuta. Nel 2016 i poveri assoluti – coloro cioè che sono privi di beni e servizi essenziali per una vita minimamente accettabile in un certo contesto sociale – sono saliti a 4 milioni e 742mila, il valore più alto dal 2005. È in aumento anche l’indicatore che misura l’intensità della povertà, passato in un anno dal 18,7% al 20,7%. Di questa situazione drammatica e soprattutto degli interventi mirati almeno a invertire la tendenza – il Consiglio dei ministri ha appena approvato in via definitiva il decreto attuativo della legge delega che introduce il Reddito d’inclusione (Rei) – abbiamo parlato con Roberto Rossini, presidente nazionale delle Acli e portavoce dell’“Alleanza contro la povertà”, il cartello di 35 organizzazioni della società civile impegnato su questo fronte dalla fine del 2013.
La ripresa economica in atto non è riuscita neanche a scalfire una situazione che è arrivata a livelli insostenibili. E a farne le spese sono soprattutto le famiglie con più figli e figli minori. A che cosa è dovuta questa sfasatura, secondo la vostra valutazione?
«Sicuramente questi dati ci dicono che c’è qualcosa che non va. Se infatti il dato assoluto d’incidenza della povertà non è variato molto da un anno all’altro, a stare sempre peggio sono le famiglie in cui la persona di riferimento ha meno di 35 anni. La nostra spesa sociale non favorisce le giovani generazioni e c’è un problema legato al lavoro: la retribuzione e la stabilità».
Dopo i pareri delle Commissioni parlamentari, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto attuativo per il Rei. Come valutate i contenuti di questo atto?
«Registriamo come un fatto positivo la conclusione di un iter cominciato lo scorso aprile con la firma del memorandum d’intesa che aveva impegnato il governo all’emanazione di un decreto legislativo. Così come è pensato, però, il Rei copre solamente un terzo degli oltre 4 milioni e mezzo di persone che in Italia vivono in povertà assoluta. È un dato sul quale occorre lavorare perché vorremmo che si arrivasse a coprire tutta la platea degli aventi diritto».
Reddito per tutti o lavoro per tutti? Secondo l’“Alleanza” quale dev’essere l’obiettivo di fondo?
«L’“Alleanza” attribuisce notevole rilievo ai servizi locali per l’inclusione, nella convinzione che questi e i contributi monetari siano complementari. Questi ultimi hanno una finalità assistenziale, poiché servono a garantire le risorse economiche necessarie a evitare l’indigenza e a raggiungere uno standard di vita decente. I primi, invece, promuovono l’inserimento sociale e lavorativo dei beneficiari, mettendo a loro disposizione le competenze e gli strumenti che possono aiutarli a uscire dalla povertà. Non bisogna dimenticare che la povertà nasce da una lunga serie di fattori e che è necessario intervenire non solo sulle conseguenze ma anche sulle cause».
Per il Reddito di inclusione, che cosa chiedete al governo in vista della manovra economica d’autunno?
«Così com’è la misura non raggiunge tutte le persone in povertà assoluta, ma dà priorità ai nuclei familiari con figli minori o con disabilità grave o con donne in stato di gravidanza accertata o con persone di età superiore a 55 anni in stato di disoccupazione. Pertanto, l’“Alleanza” chiederà ulteriori stanziamenti per la progressiva estensione della platea degli utenti del Rei, sino a raggiungere l’intera popolazione in povertà assoluta, ma anche un processo serio di potenziamento della capacità di presa in carico da parte dei servizi. È, infatti, fondamentale che la dimensione dei servizi alla persona sia adeguata ed efficace: solo così possiamo evitare che il Rei si riduca a un mero trasferimento monetario, non intervenendo realmente sulle cause della povertà».