L’Italia è un Paese che è inserito in modo vitale nel contesto internazionale, nonostante troppi impulsi autolesionistici e un costume di autodenigrazione che non ha nulla a che vedere con la doverosa critica democratica
Stefano
DE MARTIS
In questa prima parte dell’anno l’Italia ha avuto una visibilità molto rilevante sulla scena politica internazionale. Prima del vertice G7 a Taormina, infatti, a marzo si erano svolte a Roma le celebrazioni dei cinquant’anni dei Trattati europei. Né va dimenticato che per tutto il 2017 il nostro Paese siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, di cui presiede il Comitato sanzioni. Intorno a questi appuntamenti e ruoli prefissati, si è articolata una rete di incontri con i leader internazionali del premier Gentiloni (Ministro degli esteri nel precedente Esecutivo, come si ricorderà), tra cui vale ricordare il recentissimo viaggio a Parigi, quelli in Cina e Russia sempre nel mese di maggio, quello negli Usa ad aprile, nel Regno Unito a febbraio, nonché il minivertice europeo di Versailles, a marzo, con Francia, Germania e Spagna. Su un piano diverso da quello governativo, ma eminentemente espressivi della proiezione internazionale dell’Italia, sono da collocare i viaggi del Capo dello Stato, che in questi mesi è stato non solo in Cina e Russia, ma anche in Grecia, Tunisia e, recentemente, in Argentina e Uruguay, con accenti di particolare intensità e significato. Per non parlare di tutti gli incontri in cui sono il presidente Mattarella e il capo del governo, nei rispettivi ruoli, a fare gli onori di casa qui in Italia.
Questa pur sommaria elencazione non è un esercizio di pedanteria, ma serve a rendere plasticamente l’idea di un Paese che è inserito in modo vitale nel contesto internazionale, nonostante troppi impulsi politicamente autolesionistici e un costume di autodenigrazione che non ha nulla a che vedere con la doverosa critica democratica e con la dolorosa consapevolezza delle ferite inferte dalla crisi al tessuto sociale. Un Paese – tanto per dire – che esprime il presidente della Banca centrale europea e quello del Parlamento europeo. Un Paese a cui la comunità internazionale riconosce un ruolo potenzialmente decisivo e comunque ineludibile in almeno due processi cruciali di questa fase storica: il rinnovamento dell’Europa e il fenomeno delle migrazioni.
Perché l’Italia possa svolgere pienamente il proprio ruolo internazionale, tuttavia, una delle condizioni essenziali è la garanzia di un minimo di stabilità politica. Gli altri partner europei non hanno situazioni interne meno difficili delle nostre, ma le leadership che esprimono hanno la possibilità di portare a compimento i rispettivi mandati prima di essere giudicate dagli elettori. Da noi l’avvicendarsi dei governi ha un ritmo parossistico e la precarietà degli interlocutori è un elemento di grande debolezza nei rapporti con gli altri leader, oltre che – e soprattutto – nell’impostazione di politiche non di corto respiro per i problemi del Paese.
Purtroppo si tratta di una disfunzione che non riguarda soltanto la stagione pre-elettorale in cui oggettivamente ci troviamo, quale che sia la data esatta del voto. Stavolta, semmai, la preoccupazione è ancora maggiore perché si rischia di andare alle urne con il pensiero che dopo, sul piano della governabilità, potrebbe essere ancora peggio.