Laura Rancilio, medico e operatrice Caritas, guiderà in Curia una giornata di riflessione su questi temi: «I genitori devono prendere coscienza del problema e farsi sentire vicini ai loro figli. Non è vero che le nuove dipendenze siano più pericolose, ma il gioco d’azzardo si sta imponendo in modo preoccupante»
di Stefania CECCHETTI
Ci sono quelle “vecchie” come alcol e droga, e quelle nuove, come lo smartphone. Ma quando si parla di dipendenze negli adolescenti, quel che conta non è tanto l’oggetto, quanto il disagio che ci sta sotto. A questi temi è dedicata la giornata di riflessione organizzata sabato 15 ottobre dalla Consulta diocesana allargata di Pastorale della salute, che sarà guidata da Laura Rancilio, medico, responsabile delle aree Aids, dipendenze e salute mentale di Caritas Ambrosiana. Le abbiamo chiesto qualche anticipazione.
Come distinguere il generico disagio adolescenziale da una vera dipendenza?
La dipendenza arriva dopo diversi anni, non basta un comportamento sbagliato. Certo, ci sono sostanze, come eroina e cocaina, che più facilmente generano dipendenza, ma in ogni caso ci vuole tempo. Dal punto di vista clinico, la definizione è legata a precisi criteri diagnostici. Sei dipendente quando arrivi ad avere tre o più “sintomi” tra quelli comunemente elencati nei manuali. Per esempio l’astinenza, che è la sofferenza fisica o psichica quando la sostanza viene a mancare, o la tolleranza, cioè la necessità di aumentare le dosi di una sostanza o la frequenza di un’abitudine per ottenere lo stesso effetto piacevole. Esistono adolescenti clinicamente dipendenti, ma è molto più ampio il numero di quanti usano sostanze in modo improprio, senza arrivare alla dipendenza vera e propria.
Questo carica di grande responsabilità gli adulti che devono cogliere i segnali di allarme…
Certo. Ci rendiamo davvero conto di come i nostri ragazzi si comportano nel loro tempo libero? E poi il dialogo è fondamentale: siamo capaci solo di sequestrare un cellulare o sappiamo davvero parlare a un ragazzo? Che significa non limitarsi a chiedere se ha fatto i compiti, ma per esempio domandargli se è felice. Oppure raccontare qualche fatica quotidiana di noi adulti: i ragazzi devono percepirci come vicini, non come alieni.
Quali altri consigli si sentirebbe di dare a genitori ed educatori?
Sicuramente di farsi una cultura: se è vero che tutte le dipendenze hanno meccanismi simili, ogni situazione ha i suoi “specifici” che vanno conosciuti. Per capire se mio figlio utilizza cannabis devo conoscerne i sintomi. Spesso i genitori sono gli ultimi ad accorgersi, non tanto perché trascurano i figli, quanto perché li amano a tal punto da essere convinti che al proprio “bambino” certe cose non possano capitare. Insegnanti ed educatori possono avere lo sguardo più lungo.
Le nuove dipendenze sono più pericolose, perché meno conosciute?
No. La più vecchia dipendenza del mondo è quella da alcol, ma il fatto che sia ben conosciuta non la rende meno pericolosa; anzi, tendiamo a misconoscerla, soprattutto in culture, come la nostra, in cui un buon bicchiere è considerato un elemento di aggregazione. Così si permette ai nostri figli di assaggiare un goccio di spumante durante le feste, quando l’alcol non andrebbe assolutamente dato ai ragazzi sotto i 16-18 anni.
Tra le nuove dipendenze, quale la preoccupa di più?
Direi il gioco d’azzardo, fenomeno che sta diventando molto ampio e che nel 2002 il Governo Amato ha legalizzato. Fino a 15 anni fa era molto regolamentato e contingentato, oggi è una forma di business: è diventato la quarta industria in Italia. In teoria il gioco è vietato ai minori, ma in tutte le inchieste i ragazzi dichiarano di giocare: del resto basta andare su Internet utilizzando il profilo di un maggiorenne compiacente. Meno facile il gioco alle macchinette, dove il ragazzo rischia di essere riconosciuto; ma anche lì non sempre il gestore è onesto e glielo impedisce.
Quale può essere il contributo della Chiesa alla prevenzione delle dipendenze nei giovani?
Sacerdoti, associazioni ed educatori possono educare a una vita bella, vissuta bene. Cercare di far ragionare i ragazzi su quei legami e quelle “dipendenze” relazionali positive che ci fanno diventare grandi.