Dodici anni di blocco (bipartisan) dei canali di ingresso regolare incidono sull’equilibrio demografico e sulla tenuta del welfare. Il “bisogno di braccia” non giustifica il mancato rispetto dei diritti. Ecco «L’opinione» del numero di aprile del mensile
di Luca
Di Sciullo
Presidente del Centro studi e ricerche Idos
Da Il Segno di aprile
L’applicazione dell’ottica utilitaristica alle politiche migratorie, per cui dovremmo accogliere i migranti in quanto, per quanto e fin quando «ne abbiamo bisogno», dal momento che «fanno i lavori che gli italiani non vogliono (o non sanno) più fare», non è ciò che auspicano le organizzazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani: anche il «migrante inutile», infatti, è portatore di tali diritti e la riduzione dell’immigrato a «braccia da lavoro» cancella in un sol colpo il suo essere innanzitutto persona.
A tale consapevolezza, tuttavia, molti soggetti, che pure hanno a cuore l’integrazione degli stranieri, sono giunti solo gradualmente, perché a lungo anche costoro hanno acriticamente insistito sul tasto dell’utilità degli immigrati per ottenere l’apertura delle frontiere ai flussi migratori.
Del resto, è innegabile che contro una classe politica che da 12 anni perpetua, bipartisan, una linea sia di chiusura dei canali d’ingresso regolare dei lavoratori stranieri (migranti economici), sia di respingimento ed espulsione dei profughi e richiedenti asilo (migranti forzati), secondo un pensiero ormai trasversale sulle politiche migratorie, l’argomento del bisogno può rivelarsi (pur con i suoi limiti) come l’unico convincente, per chi i diritti umani degli immigrati li ha già sacrificati a una visione ideologicamente contraria all’immigrazione, «costi quel che costi».
È dunque in questa ottica di transitoria utilità politica dell’argomento che cercheremo di mostrare i “costi”, decisamente elevati, che una simile posizione di chiusura comporta.
Il primo pesante costo si osserva sul piano demografico. Nel 2020, anno di esplosione della pandemia, abbiamo conosciuto il record negativo di nascite addirittura dall’Unità d’Italia (appena 420 mila), a fronte di un picco di decessi (746 mila) che ne ha quasi portato il rapporto a due ogni nato. E l’anno successivo la denatalità (che affligge ininterrottamente l’Italia dalla metà degli anni ’90) ha toccato un nuovo record negativo con appena 400 mila nascite, il massimo distacco dall’epoca del baby boom (anni ’60 -’70), in cui talora si superava il milione di nati in un solo anno.
Di questa caduta libera della natalità e del conseguente invecchiamento della popolazione italiana, negli ultimi anni aggravati da una ripresa dell’emigrazione autoctona (e non solo) in buona parte giovanile e qualificata, gli immigrati hanno contribuito ad attenuare almeno l’inclinazione, non tanto perché generano più figli degli italiani (circostanza sempre meno vera, dal momento che anche le loro abitudini riproduttive stanno adeguandosi a quelle degli autoctoni) ma perché sono essi stessi mediamente assai più giovani di questi ultimi.
E la demografia, si sa, ha ricadute dirette sulla tenuta sia dei livelli economico-occupazionali, sia del sistema previdenziale: la carenza di manodopera interna soprattutto giovanile, infatti, interrompe il circolo di ricambio delle leve produttive, per cui i posti di lavoro che si liberano a causa dei pensionamenti, invece di venire rimpiazzati, si perdono, restringendo sempre più la base occupazionale, che, d’altra parte, si fa sempre più anziana. Ne consegue una contrazione sia della produttività sia della capacità di innovazione, quest’ultima facendo capo soprattutto alla intraprendenza e alla capacità di stare al passo dei tempi proprie dei giovani.
Dinanzi a ciò, è incredibile come le politiche migratorie restino ostinatamente sorde e immobili, perpetuando verso i migranti una linea ideologica che prevale perfino sulle esigenze reali del Paese, a scapito del benessere comune.
Non solo, infatti, l’Italia ha tenuto sbarrato, negli ultimi 12 anni, il principale canale di ingresso regolare di lavoratori stranieri dall’estero, quello delle quote stabilite nei Decreti flussi, di molto inferiori (32-34 mila annue) all’effettiva necessità del mercato interno perfino negli anni di pandemia, quando le carenze di manodopera hanno messo in crisi filiere e comparti vitali dell’economia; ma ne ha anche riservato la maggior parte o a immigrati già presenti in Italia, quindi non a ingressi effettivi (conversioni del permesso di soggiorno), o a lavoratori solo stagionali.
Come non bastasse, continua pure a occupare male e poco anche i lavoratori presenti: ben un terzo di loro, complice la perdurante mancanza di riconoscimento dei titoli di formazione acquisiti all’estero, risulta sovra istruito (svolge mansioni più basse di quanto la propria formazione consentirebbe) e ben un quinto è sottoccupato (impiegato per meno ore di quelle che è disponibile a lavorare). Vige infatti un modello di segregazione occupazionale per cui gli immigrati vengono sistematicamente relegati ai gradini più bassi della scala delle professioni, dove svolgono i lavori più squalificati, precari, sottopagati, faticosi e pericolosi (operai, manovali, braccianti, facchini, camerieri, cuochi, trasportatori, giardinieri, addetti alle pulizie, badanti, ecc.), da cui non si svincolano neppure dopo molti anni di attività, il che blocca la loro mobilità occupazionale e sociale. Mentre la sottoccupazione nasconde spesso un mercato parallelo di lavoro nero (o “grigio”) che investe molto di più gli stranieri che gli italiani.
Eppure, nonostante questo pessimo impiego lavorativo, gli immigrati non solo contribuiscono per circa un decimo alla ricchezza e benessere nazionale (il valore aggiunto del loro lavoro è di 147 miliardi di euro, il 9,5% del Pil), ma, attraverso i consumi e il pagamento di tasse e contributi, assicurano allo Stato più di quanto gli costano (+1,3 miliardi di euro netti a vantaggio dell’erario pubblico), trainano l’imprenditoria del Paese (le loro imprese, 642 mila a fine 2021, sono le uniche a crescere, anche negli anni di crisi) e con le rimesse «aiutano a casa loro» più di quanto faccia l’Italia con gli aiuti allo sviluppo.
Tutte “utilità” – queste dell’apporto al Pil, del guadagno netto per le casse dello Stato, dell’imprenditorialità e delle rimesse – che sarebbero molto più consistenti, a vantaggio del bene comune, se solo l’Italia rimuovesse quei molti meccanismi normativi che ancora sviliscono il potenziale degli immigrati e ne facilitano lo scivolamento nell’irregolarità giuridica (esponendoli così a lavoro nero e sfruttamento), valorizzandone meglio le competenze.