Sopravvissuta all’attentato terroristico di Bruxelles, ma provata dalla sofferenza psichica, una 23enne belga ha posto fine alla propria vita. L’antropologo si interroga su cosa avrebbe potuto scongiurarla
di Giovanna
Pasqualin Traversa
Agensir
Una giovane donna in Belgio, da alcuni anni morta dentro, di fronte a una legge mascherata di falsa pietà. Sopravvissuta a 17 anni all’attentato terroristico del 22 marzo 2016 nell’aeroporto di Bruxelles, ma segnata per sempre dal punto di vista psicologico-emotivo, dopo sei anni di depressione, attacchi di panico, ricoveri in ospedale e un tentato suicidio, Shanti De Corte ha chiesto, a soli 23 anni, l’eutanasia con la motivazione di una «sofferenza psichica insopportabile».
«È impossibile e sarebbe anche ingiusto e presuntuoso pretendere di entrare nel mistero della mente e dell’anima della giovane che ha fatto questa scelta, così come in quello dei genitori che l’hanno accompagnata a questo tragico epilogo con la morte nel cuore. Quello che spinge a una riflessione è questo suo dolore atroce di fronte al quale chiedersi che tipo di risposte abbia avuto – dice Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma -. Noi esseri umani siamo un animal symbolicum. Ogni stimolo che riceviamo dall’ambiente lo interpretiamo a livello simbolico e da questa interpretazione dipende la nostra risposta. Gli elementi che ci forniscono le chiavi interpretative provengono dai linguaggi presenti all’interno della nostra cultura sociale che oggi sembra avere smarrito la sapienza antica, legata alla Bibbia e alla cultura greca, secondo la quale nella vita umana gioia e dolore sono intrecciati e inscindibili. Oggi invece riteniamo che la vita possa essere totalmente esente dal dolore e tentiamo di anestetizzare ogni forma di sofferenza attraverso il divertimento o ricorrendo a farmaci, alcol e/o droghe».
Con quali conseguenze?
Questo tentativo di stordimento ci impedisce di entrare in contatto con la sofferenza interiore e con la nostra anima rendendoci incapaci di comprendere che anche l’esperienza del dolore può essere luogo di crescita ed evoluzione. Ma c’è di più.
Che cosa?
Si è smarrito il senso della vita come mistero. L’uomo preistorico ne coglieva l’insondabilità; noi invece pretendiamo di spiegare che cosa sia quando in realtà possiamo al massimo descriverne i meccanismi biologici. Avendo smarrito questo, abbiamo perduto anche la capacità di amare la vita autenticamente, nella sua profondità. A questo amore alla vita, anche nelle cose più semplici o nelle situazioni più difficili, occorre riprendere a educare le giovani generazioni.
Al di là della terapia farmacologica per la depressione maggiore di cui soffriva, di che tipo di risposte potrebbe avere avuto bisogno Shanti?
Credo anzitutto di ascolto. Ma per riuscire ad ascoltare realmente il dolore dell’altro dobbiamo non avere ottenebrato la capacità di ascoltare la sofferenza che ci comunica la nostra anima, che va riconosciuta e accettata. Solo entrandovi in contatto possiamo essere in grado di cogliere la profondità del dolore altrui, della sofferenza “esistenziale” per la quale le strategie “anestetizzanti” non funzionano. Ascoltare, accompagnare: il nucleo della questione è aiutare l’altro, spesso murato nel suo dolore, a trovare e a dare un senso alla propria sofferenza, nel suo caso anche all’orrore vissuto. Si è parlato di depressione maggiore; Jung la descrive come il viaggio di chi, avendo smarrito il contatto con le proprie energie vitali, scende nella profondità di sé per riscoprire le fonti della vita e abbeverarsene. Una discesa insidiosa e che comporta anche il rischio di perdersi e scegliere un atto estremo. La depressione va trattata farmacologicamente ma non dobbiamo dimenticare che è una perdita di contatto con la vita che pulsa in noi, nella nostra interiorità più profonda, che dobbiamo in qualche modo recuperare; un percorso nel quale occorre essere accompagnati e sostenuti. Non abbiamo elementi per dire se questa giovane abbia ricevuto o no questo tipo di supporto, ma è un interrogativo che non possiamo eludere.
Però inquieta una legislazione che consente di togliere la vita, “sdoganando” l’eutanasia di una ragazza di poco più di vent’anni, vittima di «sofferenza psichica insopportabile»…
Ecco perché torno al problema centrale della nostra cultura: essere in grado di accogliere la presenza del dolore nella nostra vita e in quella degli altri e, in virtù di questo, consolare chi soffre aiutandolo a dare un senso al proprio vissuto.
Il messaggio che non vi sia altra via d’uscita se non la morte, non è un segnale di disperazione pericoloso per i giovani di oggi sempre più fragili e soli?
Sì. Sto lavorando a una riflessione sulle tracce di morte presenti nella nostra cultura, sul pensiero che la vita non abbia senso se non nelle cose che apparentemente appagano, oppure se rispondente ai parametri di salute, autonomia ed efficienza fissati dalla società. Vorrei rilanciare una proposta culturale di educazione dei giovani che rimetta al centro la bellezza della vita incoraggiandoli ad amarla anche quando tutto sembra negarla. Oggi facciamo i conti con una sorta di robotizzazione dell’umano che esclude la dimensione dell’interiorità, un aspetto sul quale dovrebbe invece impegnarsi una società che abbia cura dei suoi giovani. Con profondo rispetto nei confronti di Shanti e dei suoi poveri genitori che per tutta la vita porteranno una ferita destinata a non rimarginarsi, sono convinto che questa vicenda dovrebbe costituire uno stimolo per ripensare i nostri paradigmi culturali e modelli educativi e impegnarsi affinché nessuno possa ritenere la morte l’unica via possibile.
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