Che Mondiale sarà senza Azzurri? Il noto telecronista commenta la storica eliminazione ed è fiducioso per il futuro. Ma occorre ritrovare la «capacità di sorridere»

di Daniele ROCCHI

Bruno Pizzul

Il 2018 sarà l’anno dei Mondiali di calcio in Russia. E dopo 60 anni (1958) non ci sarà la Nazionale italiana tra le finaliste. Gli Azzurri, infatti, sono stati eliminati, nel novembre scorso, dalla Svezia nel corso degli spareggi di qualificazione. Un vero e proprio psicodramma collettivo, tutto italiano, ha accompagnato questa storica eliminazione le cui polemiche, per ora sopite con i tifosi distratti dal campionato di calcio di Serie A, sono destinate a riesplodere il 14 giugno 2018, quando nello stadio Lužniki di Mosca, scenderanno in campo Russia e Arabia Saudita per la partita inaugurale della 21ª edizione del Mondiale. Ma che Mondiale sarà quello senza l’Italia? Come lo seguiranno i tifosi italiani? Potrà il nostro calcio fare tesoro di questa eliminazione e trasformarla in una chance di rinascita? Lo abbiamo chiesto a Bruno Pizzul, giornalista sportivo e storico telecronista, la cui voce ha raccontato per anni le partite della nostra Nazionale.

L’eliminazione italiana da Russia 2018 è una delle pagine più tristi del nostro calcio. Che Mondiale sarà per i tifosi italiani?

«Per i tifosi italiani la mancata partecipazione al Mondiale è una ferita aperta. Ora la grande delusione pare momentaneamente assorbita ma quando le 32 squadre finaliste scenderanno in campo per contendersi la vittoria, l’assenza della nostra Nazionale diventerà difficilmente sopportabile. Questo perché l’assenza dell’Italia dal Mondiale provocherà probabilmente anche una disaffezione verso le telecronache dalla Russia».

Senza Azzurri, adesso, per chi tifare?

«Gli italiani più che appassionati del calcio sono dei tifosi e nel momento in cui non hanno la loro squadra hanno delle reazioni tiepide verso altre Nazionali o giocatori. Direi che questa è una scelta che ciascuno farà secondo le sue predilezioni. Per tanti anni ho fatto il telecronista della Rai, ho cominciato nel 1970. A fare le telecronache della Nazionale allora era Nando Martellini, prima di lui Nicolò Carosio, dei veri mostri sacri e grandi maestri. Io venivo dopo e per questo avevo la possibilità di scegliere la partita da seguire, esclusa l’Italia. Mi ricordo delle partite bellissime».

Ne ricorda una in particolare?

«Ricordo con emozione il quarto di finale del Mondiale del 1970, in Messico, tra Germania e Inghilterra. Quasi una rivincita della finale di quattro anni prima, molto discussa per il “goal non goal” dell’inglese Hurst. Questa volta gli inglesi avanti 2 a 0 furono raggiunti a pochi minuti dalla fine e superati dai tedeschi nei supplementari. Tedeschi che poi furono battuti dall’Italia, in semifinale, nella storica partita del 4 a 3».

Dunque seguire il Mondiale senza poter tifare per gli Azzurri è possibile?

«Il calcio trasmette emozioni. Questo presuppone una passione di base per il calcio e la voglia di apprezzarlo anche come spettacolo. Credo, quindi, che si possa seguire il Mondiale con piacere e con la dovuta attenzione. Magari con meno passione rispetto a quella di un tifoso. Gli appassionati sapranno scegliere anche in mancanza della squadra del cuore».

C’è una squadra che potrebbe essere la rivelazione del torneo?

«Una possibile sorpresa potrebbe essere il Belgio ma sono parecchie le Nazionali con dei giovani interessanti. Certamente alla fine a prevalere saranno le grandi scuole, Brasile, Argentina, Germania, Spagna e via dicendo».

Il Mondiale servirà al nostro calcio per leccarsi le ferite. È ancora vivo il ricordo del pianto di Gianluigi Buffon dopo la sconfitta di San Siro con la Svezia. Il portiere azzurro allora parlò di «fallimento anche sociale»…

«Questa eliminazione è la manifestazione negativa, sul piano del risultato, di una società che ultimamente poco ha dato, per esempio, sul piano dei settori giovanili. Il nostro calcio da anni non produce quel ricambio generazionale che avrebbe consentito risultati meno deludenti sul piano internazionale. Ci sono poi anche delle risultanze negative sul piano economico. La mancata qualificazione, da un lato, non consente all’Italia di accedere alle risorse previste per le 32 finaliste e, dall’altro, potrebbe anche ripercuotersi a livello economico più generale. L’eliminazione ad opera dell’Irlanda del Nord, nel 1958, avvenne in pieno boom economico e gli effetti furono relativi, oggi invece le conseguenze si potrebbero sentire data la situazione critica in cui ci troviamo».

Da dove ripartire per ridare lustro al movimento calcistico italiano?

«In primis dalla riorganizzazione dei settori giovanili. Uno dei problemi individuati perfino dalla Federazione italiana gioco calcio (Figc), che notoriamente si avvede dei problemi con epocale ritardo, sta nell’alta percentuale di abbandono dell’attività calcistica dei bambini. I ragazzini smettono perché non si divertono, perché sono trattati come se fossero già dei calciatori professionisti fin da quando hanno solo 10 o 11 anni. Qui dobbiamo registrare anche la pressione di genitori che spediscono i figli a giocare a calcio come se fosse un investimento economico a futura memoria. Bisogna seguire l’esempio di Paesi come la Germania che ha creato una decina di centri federali in cui le giovani promesse vengono allenate da maestri di calcio e di vita, aiutate anche nel percorso scolastico. Un altro dei problemi – come si sente dire in giro – del nostro calcio sarebbe il numero spropositato di giocatori stranieri che militano nelle nostre squadre di vertice. Ma ci sono altri campionati come quello tedesco, francese o spagnolo, in cui il numero degli stranieri è analogo al nostro e dove fioriscono nuovi talenti. Occorre aiutare i ragazzi a giocare a calcio con entusiasmo e passione, facendoli divertire».

Stadi di proprietà: possono servire al rilancio del nostro calcio?

«Lo stadio è la casa di una società calcistica. In Italia siamo molto indietro. E anche se il calcio mobilita passione popolare e risorse economiche, a livello di strutture siamo rimasti un paese da terzo mondo. Questo anche è un segno del decadimento cui è necessario porre rimedio».

Sempre più spesso si sente dire che nel calcio «girano troppi soldi». È d’accordo? Può essere questa un’altra delle cause della crisi che attraversa il calcio italiano?

«Credo che vada rivisto anche il modo di comportarsi di tutte le componenti del calcio italiano. Mi riferisco, per esempio, alla nostra Federazione e alle Leghe che gestiscono il calcio come se l’aspetto prevalente fosse il reperimento dei fondi. Il nostro calcio di vertice, dei soldi facili, delle baruffe televisive, delle polemiche infinite, è pesantemente contaminato dall’aspetto finanziario al punto che c’è qualcuno che avanza il dubbio che si possa parlare ancora di sport vero e proprio. Vanno recuperati i valori fondanti dello sport che è un’agenzia educativa. Dallo sport di vertice dovrebbero giungere degli esempi che non siano un ostacolo a chi, negli oratori, nei centri sportivi, nei vivai, cerca di insegnare lo sport in modo che diventi un momento di crescita civile e non solo sportiva. Il calcio di vertice deve mondarsi un po’ da questi atteggiamenti che francamente lo hanno allontanato dai valori sportivi originali. Il mio augurio è che il calcio di oggi ritrovi quella capacità di sorridere che ha perso ormai da tempo. A cominciare dai tifosi sempre meno propensi allo sfottò e alle prese in giro come avveniva in passato e sempre più dediti a derive violente e ideologiche come si vede spesso in tanti stadi».

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