La “casa comune” è stata garanzia di pace nel continente, è antidoto al risorgere dei nazionalismi, può essere argine alle diseguaglianze globali, oltre che artefice di una politica più equa e umana. Anche nei confronti di chi europeo non è
di Milena
Santerini
Ordinario di Pedagogia generale all’Università Cattolica di Milano
La costruzione di un’Europa unita è stata ed è un sogno, ma prima ancora una necessità. In passato lo è stata davanti ai rischi delle guerre di religione, agli scontri per i confini, alle violenze etniche e alle innumerevoli guerre, oggi davanti alla globalizzazione. L’unione pacifica tra i Paesi che condividono il nostro continente è anzitutto una necessità davanti alle guerre tra popoli e nazioni che hanno insanguinato il mondo. La nazione è stata il grande mito dell’Ottocento, la principale causa delle violenze del Novecento, la fonte di un distruttivo nazionalismo che oggi, purtroppo, sembra riaffacciarsi in Europa dopo decenni di pace.
L’abolizione delle frontiere, il mercato comune, la lenta, ma efficace costruzione di norme integrate, di convergenze, di scambi, insomma tutto la preziosa eredità del dopoguerra pare negli ultimi anni poter essere messa in discussione. Come se, ineluttabilmente, la forza attrattiva della disgregazione ci riportasse indietro, verso tempi che non avremmo più voluto vedere. Certo, il nazionalismo sembra riemergere continuamente dalle soffitte della storia. Scriveva Benedetto XV nel momento dei peggiori nazionalismi: «Si deponga il mutuo proposito di distruzione; si rifletta che le Nazioni non muoiono: umiliate e oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta».
È davvero paradossale che occorra ricordare agli europei quanto odio può portare la difesa del proprio suolo, del proprio gruppo, insomma il «noismo», l’egoismo del noi di cui parlava Primo Levi. La Shoah, la distruzione degli ebrei (insieme a politici, rom, omosessuali e altri) nel cuore dell’Europa ricorda come l’antisemitismo e il razzismo siano duri da sconfiggere. Rappresentano, infatti, gli esiti del pregiudizio e dell’odio contro il diverso portati alle estreme conseguenze; ma l’Olocausto, soprattutto, ci ammonisce nel difendere la democrazia, argine agli attacchi contro i diritti dei singoli e dei gruppi.
Oggi, davanti a una globalizzazione non controllata, all’espandersi di poteri economici transfrontalieri, all’aggressività dei monopoli o delle grandi potenze mondiali, “siamo autorizzati” a pensare un’Europa che sia ancor più la nostra casa. L’unione nel suo insieme è debole di fronte alla Cina, alla Russia o agli Usa, quanto più lo sarebbe un singolo Paese? Quasi soltanto l’Unione Europea ha alzato la voce sull’antitrust per difendere la concorrenza o ha imposto finalmente regole ai grandi del web (Facebook, Google, Twitter, ecc), ma deve fare molto di più per arginare i mercati mondiali e combattere le grandi disuguaglianze che hanno nutrito i populismi attuali.
Certo, questa Europa è sembrata essere a volte «il mostro buono di Bruxelles», come ha scritto Hans M. Enzensberger. Si è pagato un prezzo politico, soprattutto quando Paesi più ricchi non hanno voluto sostenere il debito degli altri; abbiamo subìto a volte meccanismi “freddi”, linguaggi burocratici e la proliferazione di corpi e istituti dalle sigle indecifrabili; la solidarietà europea si è infranta davanti a poche migliaia di profughi da accogliere, ostaggi dei ricatti reciproci. Prima ancora della crisi dei migranti c’era stato il fallimento della revisione della Costituzione (2007) e l’entrata dei dieci nuovi Stati membri dell’Est. La crisi economica globale ha fatto il resto, con la paura del declassamento delle classi medie e l’arrivo delle forze populiste.
Ma, più spesso, Paesi come l’Italia sono stati spinti verso regole democratiche più efficaci e trasparenti, e hanno dovuto, per fortuna, migliorare il livello del rispetto verso i diritti umani, della difesa dell’ambiente o della lotta contro la corruzione. L’Europa è stata ed è il sogno di un’area senza frontiere, dai confini finalmente «sdrammatizzati» (Bocchi, Ceruti 2009) con una moneta unica e una progressiva integrazione di regole commerciali e di processi nella formazione e nella scuola (Strategia di Lisbona 2000), con una voce unanime contro la pena di morte o a favore di un diritto “giusto” e non vendicativo.
Uno dei punti su cui riflettere, quindi, dal punto di vista civile o “della cittadinanza” è cosa sia avvenuto nel passaggio generazionale degli ultimi anni e come si possa contrastare questa “amnesia” verso un progetto così grandioso di superamento delle piccole patrie. Sono i vecchi che hanno perso fiducia o i giovani che non hanno memoria delle divisioni europee prima dell’Unione? La nuova generazione che continua a essere entusiasta dell’Europa ci rassicura nel trovare i motivi dello stare insieme e ci restituisce le ragioni per vincere l’inerzia perché quella attuale sia una crisi di crescita e non di disgregazione: crescita verso una maggiore sussidiarietà, più grande fiducia nelle istituzioni, pazienza nella cooperazione anche se costa fatica e sacrifici, potenziamento dei corpi intermedi che i populismi vogliono mortificare, insomma nuovi modi e significati per essere “cittadini europei”.
Infine, l’Europa è un valore per chi non ce l’ha. In tante parti del mondo manca la democrazia, sono violati i diritti umani, c’è povertà e mancanza di futuro per i giovani. Quanti vorrebbero essere al nostro posto? Nel barcone naufragato nell’aprile del 2015 nello stretto di Sicilia sono stati ritrovati i resti di un adolescente del Mali che – nella traversata per arrivare in Europa – conservava gelosamente una pagella. Non è riuscito a realizzare il suo sogno di studiare da noi, come Yaguine e Fodé, due ragazzi della Guinea morti nella stiva di un aereo a quindici anni, nel 1999, mentre cercavano di arrivare in Belgio. Respingere non può essere la sola risposta, se non si realizza una politica d’asilo comune e non si crea una reale politica di cooperazione nei Paesi di provenienza dei rifugiati.
All’Europa dei muri papa Francesco chiede di essere una comunità inclusiva che vinca la paura della diversità: «L’Europa vive una sorta di deficit di memoria. Tornare a essere comunità solidale significa riscoprire il valore del proprio passato, per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di speranza» (Comece, “(Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del Progetto Europeo”). Non servono tanto dialoghi sterili, ma una rivolta e una resistenza spirituale (si ricordi il monachesimo alle origini dell’Europa) che richiami non solo alla memoria della pace, ma anche alla solidarietà, alla giustizia e all’apertura.
Volere l’unione dei Paesi e dei popoli si accompagna a reclamare l’unità tra i cristiani del continente. Il compito dell’ecumenismo è uno dei modi con cui si costruisce e si rafforza la fiducia nell’Europa come una sola famiglia. Ciò non significa un’Europa popolata “solo” da cristiani, ma cristiana perché umana: e solo se sarà umana con quelli che non appartengono all’Europa potrà dirsi veramente patria dell’umanesimo.