L’appello della Cei, il ruolo dei giovani, la capacità di parlare in pubblico, il rifiuto del populismo e dell’intolleranza, la strumentalizzazione dei simboli religiosi, la ricerca del dialogo senza rinunciare all’identità: confronto a tutto campo con il direttore di «Aggiornamenti sociali»

di Pino NARDI

giacomo costa
Padre Giacomo Costa

«Insieme ai loro coetanei, l’attuale generazione di giovani cattolici è chiamata a riconfigurare la democrazia e a trovare per il mondo di oggi nuove forme per i valori di libertà e uguaglianza su cui essa si fonda». Lo sostiene padre Giacomo Costa, direttore di Aggiornamenti sociali. Nel mondo cattolico c’è un nuovo fermento nel dibattito sull’impegno dei laici in politica. Questa la riflessione del gesuita che guida il mensile di piazza San Fedele, nominato da papa Francesco prima segretario speciale del Sinodo sui giovani, poi consultore della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi.

La Chiesa italiana, attraverso le parole del presidente della Cei, cardinale Bassetti, invita con forza a una nuova presenza di laici cattolici nella politica. Come comprende questo invito?
Si tratta di un appello ricorrente: la Chiesa sa quanto è importante un concreto impegno per il bene comune e non vuole tirarsi indietro. Oggi è fondamentale che sia rivolto soprattutto ai giovani e siano loro a rispondere. La democrazia infatti sta cambiando perché rispecchia una cultura in continuo mutamento. Dopo l’irruzione dei social media, si prepara quella dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi. Non investirà solo l’economia e il mondo del lavoro, ma anche i circuiti di formazione e aggregazione del consenso. Serve anche un dialogo tra generazioni riguardo alla democrazia, come quello che sta portando avanti il Forum nazionale di etica civile di Firenze, attraverso il quale la tradizione e il passato siano una radice generativa dell’impegno e non un ostacolo.

Si parla di incapacità dei cattolici oggi di fare sentire la propria voce nel dibattito pubblico. Quale strada per superare questa situazione?
Bisogna imparare a parlare nello spazio pubblico di oggi, diverso da quello del passato. I fatti hanno perso valore, e la verità è ridotta a una delle opinioni tra cui si sceglie per consonanza emotiva. Cambia così il tenore del discorso politico: l’argomentazione razionale è sostituita dalle tecniche di gestione del consenso. Chi le padroneggia meglio se ne avvantaggia e aumentano le opportunità di manipolazione. Anche a causa degli strumenti tecnologici utilizzati, il risultato è che si frammenta lo spazio pubblico in circuiti chiusi paralleli. La sfida è stare dentro questo contesto in modo costruttivo, aiutando le persone a imparare a distinguere la comunicazione di qualità da quella manipolatoria. È possibile? Nella comunità ecclesiale non mancano valori e idee, né esperienze significative di vicinanza alla gente. Però manca il linguaggio. Senza dimenticare che anche nell’ambito della comunicazione i cristiani sono chiamati a essere alternativi e a testimoniare la carica profetica del Vangelo, che non si lascia addomesticare da nessun interesse di parte, ma continua a schierarsi a difesa della persona, e in particolare dei più deboli, poveri e vulnerabili».

No al populismo, sì al popolarismo. A cento anni dall’Appello ai liberi e forti di Luigi Sturzo, come rilanciare l’ispirazione che nell’ultimo secolo ha garantito libertà e democrazia nel Paese?
È un buon esempio della riconfigurazione della democrazia di cui parlavamo. Il «dovere di cooperare» e la capacità di agire «senza pregiudizi né preconcetti» che leggiamo nell’Appello sturziano acquistano oggi un significato più ampio e invitano a superare tutte le appartenenze, non solo confessionali, ma anche ideologiche, culturali, sociali, economiche, compresi gli interessi di parte e il tornaconto individuale o di gruppo. Il primo passo per cooperare è rinunciare a trincerarsi dietro interessi e appartenenze, che altrimenti bloccano tutto. Lo vediamo in continuazione, per esempio all’interno della Ue: se ciascuno si barrica dietro l’interesse nazionale non si fa mai un passo avanti. Certo ci vuole coraggio, bisogna davvero essere liberi e forti!

Come dialogare con tutti senza perdere la propria identità?
Come ci insegna papa Francesco, dialogare significa incontrarsi, darsi un obiettivo comune e provare a raggiungerlo, fare insieme un tratto di strada. Non intavolare una discussione in cui si cerca di convincere l’altro, o magari lo si insulta, e poi si torna a casa uguali a come si era usciti. Dialogare implica capacità di ascoltare e disponibilità a imparare e a cambiare. Camminando insieme ciascuno approfondisce la propria identità e la ricomprende, l’identità non è qualcosa di predefinito e di statico, è anche una continua ricerca. Anzi, sono le identità deboli e insicure che hanno paura del dialogo. Per le religioni poi, la capacità di dialogo è un test di credibilità. La mentalità laicista le vede come fonte di divisione, ma quando riescono a dialogare mostrano di essere risorse nella ricerca di una strada da percorrere insieme pur nelle differenze. È la lezione della Dichiarazione di Abu Dhabi, firmata a febbraio dal Papa e dal Grande Imam di Al-Azhar, a cui siamo chiamati a dare continuità. Per esempio pubblicheremo presto su Aggiornamenti sociali un documento, sottoscritto da rappresentanti ufficiali delle tre religioni abramitiche, sui temi di fine vita, quanto mai divisivi nella nostra società.

Di fronte al preoccupante fenomeno di odio, razzismo, antisemitismo, diffuso in primo luogo dai social, come devono reagire i credenti?
Che si tratti di atteggiamenti e convinzioni incompatibili con il Vangelo è fuor di dubbio. Ma anche qui bisogna fare attenzione al funzionamento dei circuiti comunicativi. Ribattere polemicamente finisce per aumentare l’esposizione mediatica delle posizioni da cui si prende distanza, accrescendo la popolarità di chi le propugna. Purtroppo non tutti se ne rendono conto e continuano a comunicare come si faceva in passato. Occorre invece cambiare registro: più della polemica, abbiamo bisogno di costruire nuove narrative a partire dalle tante esperienze positive di cui le nostre comunità sono protagoniste, capaci di coinvolgere le persone anche a livello emotivo. In fondo è la forza del “vieni e vedi”, del convincere facendo fare un’esperienza che arricchisce e fa provare il gusto del bene.

Si è discusso molto in questi mesi dell’uso di simboli religiosi a fini politici. Come valuta questo fenomeno? E la comunità cristiana ha la maturità per gestirlo?
Personalmente trovo umiliante vedere simboli della fede trasformati in talismani alla conquista del consenso, ma privati di qualsiasi connessione riconoscibile con il messaggio evangelico. A un livello più ampio, credo che il criterio di valutazione stia negli effetti, che si ritorcono comunque contro la comunità cristiana, perché emergono spaccature partigiane al suo interno, mentre chi è un po’ più distante non può fare a meno di provare fastidio e convincersi che è meglio stare alla larga. Per quanto riguarda la maturazione della comunità ecclesiale ci vogliono tempo, formazione, discernimento e anche sofferenze. Ma il Vangelo è più forte di chi tenta di strumentalizzarlo, e la storia della Chiesa lo ha dimostrato tante volte.

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