L’emergenza sanitaria ha portato a scoprire che i servizi alla persona - terreno umano presidiato prevalentemente al femminile - sono indispensabili al benessere, o addirittura alla sopravvivenza, quanto e più dei beni
di Paola
PESSINA
Vicepresidente della Fondazione Cariplo
La coincidenza di questo strano 8 marzo con lo shock del Coronavirus pone un’urgenza: crescere come umani di almeno una briciola, in questa gigantesca ondata che fa vacillare la nostra quotidianità.
Da quell’osservatorio speciale che è Fondazione Cariplo – dove si incrociano le esperienze più dense e innovative del Terzo Settore lombardo – la mia briciola è questa: il focus di ciò che sta accadendo si concentra sul tema della cura. Con la necessità primaria di prendersi cura di chi si prende cura. Il valore da tutelare si sposta cioè dalla produzione, disponibilità e consumo di beni, alla produzione di relazioni. Sostegno, vicinanza, accudimento si rivelano la materia prima di cui sono fatte le vite degli umani. Se le relazioni si rarefanno, se i caregivers vengono a mancare, si vanifica anche tutto il sistema economico fondato sullo scambio di beni.
La crisi sanitaria accende l’attenzione sul terreno umano presidiato prevalentemente al femminile, quella incalcolabile produzione di valore che le donne mettono da sempre a disposizione dell’umano nella sfera privata, perciò In massima parte gratuitamente: perché generare e allevare i nuovi nati o assistere chi non riesce a rispondere autonomamente alle proprie necessità è la garanzia della continuità e della sostenibilità della vita. Per tutti. La crisi disegna un ordine diverso delle priorità, obbligando a posporre l’interesse economico a quello primario della tutela della salute. E il diradarsi forzato delle relazioni si palesa come un dramma nei confronti dei soggetti più fragili, e per tutti come una mancanza acuta, spiazzante anche quando si può tollerarne temporaneamente l’assenza. Si scopre che ciò che è gratuito, dato come naturale, è in realtà senza prezzo, perché è essenziale. Si scopre che “i servizi” sono indispensabili al benessere, o addirittura alla sopravvivenza: quanto e più dei beni.
L’Arcivescovo nella prima omelia di Quaresima ha indicato la crisi come il tempo favorevole alla conversione. La crisi svela che “il servizio” è la chiave di tenuta delle nostre convivenze, delle nostre comunità: è chi “serve” che merita riconoscimento e tutela, come accade in questo momento agli operatori sanitari, alle forze di protezione civile e a quelle dell’ordine che arginano lo stress di questa congiuntura così sfidante. Che offrono un servizio riconosciuto professionalmente, quanto meno, e remunerato economicamente, benché non adeguatamente in molte situazioni. È sotto gli occhi di tutti, infatti, quanto rispetto ad altri settori produttivi il livello di retribuzione, di durata, di progressione, di investimento tecnologico sia platealmente più modesto nell’area dei servizi. Laddove una maggior presenza femminile (istruzione e assistenza socio-sanitaria in primis), espansione professionale del servizio già esercitato nella sfera privata, ribadisce da una parte un ruolo “naturale” (“servono”, le donne…) e dall’altra sconta livelli più bassi di retribuzioni e riconoscimenti professionali.
«Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (Mc 10,43-45). Gesù, uomo e capo, ribalta la logica dei maschi del suo gruppo, che disputano di potere e di gerarchie mentre lo accompagnano a Gerusalemme. E se non bastasse, li sconcerta lavando loro i piedi e comandando di fare altrettanto: come fanno le donne, come fanno quelli che “servono” davvero.
Questo 8 marzo da coronavirus ci mette di fronte a una conversione radicale: e anziché proporre l’ennesima richiesta di riconoscimento di potere alle donne impone la domanda su quanto riconoscimento e quanta compartecipazione alla centralità e al valore del servizio la nostra cultura patriarcale è capace di esigere dagli uomini. Quelli cristiani per primi: se non ora, quando?