Dopo quattro giorni di duri negoziati approvazione del bilancio pluriennale e del Fondo di ripresa. I soldi sosterranno programmi pubblici di recupero dai danni economici e sociali causati dall’epidemia. Maggiori aiuti agli Stati più colpiti, a partire dall'Italia

di Edoardo ONGARO
Professore di Management pubblico presso la Open University del Regno Unito

Michel e Von der Leyen al termine del Consiglio europeo foto SIRConsiglio Ue
Michel e Von der Leyen al termine del Consiglio europeo (foto Sir / Consiglio Ue)

Un accordo storico. Il termine viene usato spesso e probabilmente in molti casi abusato nella cronaca degli eventi comunitari, e tuttavia dopo questi quattro giorni e quattro notti di negoziato al Consiglio europeo non è retorico. Vediamo perché.

All’alba di martedì 21 luglio il Consiglio europeo, organo che riunisce i capi di Stato e di governo dell’Unione europea, ha approvato una versione modificata, ma non stravolta nell’impostazione di fondo, della proposta presentata dalla Commissione europea per il piano pluriennale di bilancio dell’Unione e per costituire un fondo speciale – in inglese Recovery Fund, o Fondo per la ripresa – finanziato per 750 miliardi di euro.

La grande innovazione è proprio il Fondo per la ripresa. La novità sta sia nel modo in cui viene finanziato, sia nel modo in cui spenderà i soldi. Cominciamo da quest’ultimo aspetto: i soldi saranno spesi per programmi pubblici volti a permettere un più rapido e profondo recupero dai danni economici e sociali causati dall’epidemia di Covid-19. Ne consegue che i soldi saranno distribuiti in funzione di quanto un Paese è stato colpito dall’epidemia di Covid-19. Si tratta dunque di una forma molto profonda di solidarietà a livello europeo. Per l’Italia si tratta di una cifra impressionante: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato 209 miliardi fra sussidi e prestiti. Anche chi vede l’appartenenza all’Ue in termini soltanto contabili, difficilmente potrà negare la “convenienza” dell’Italia a essere parte della comunità europea.

Certamente i programmi finanziati con il Recovery Fund dovranno essere fatti funzionare bene: pianificati ed effettivamente attuati. Anche di questo si è discusso, comprensibilmente, durante il Consiglio europeo, e in tutta onestà un monitoraggio forte da parte degli organi comunitari di come le autorità pubbliche italiane spenderanno i soldi dovrebbe essere più che benvenuto: è infatti dovere delle autorità impiegare questi soldi proficuamente. La funzione di controllo sarà principalmente dalla Commissione Ue, e anche questo è un passo avanti: lo strumento adottato un decennio fa durante la crisi fiscale di alcuni Paesi come la Grecia aveva portato a costituire un fondo di finanziamento gestito direttamente dagli Stati nazionali e quasi del tutto fuori dalla supervisione sia della Commissione, sia del Parlamento europeo. Il Fondo per la ripresa è invece uno strumento veramente comunitario e totalmente integrato nel sistema delle istituzioni dell’Ue.

Anche il modo in cui verrà finanziato il Fondo per la ripresa rappresenta una novità storica. Viene infatti finanziato con emissione di debito a carico dell’Ue in quanto tale: per la prima volta l’Unione si fa carico collettivamente di prendere soldi a prestito dai mercati finanziari, per quantità ingenti (un indebitamento per cifre molto limitate era già stato effettuato in passato, ma per importi ridotti) per impiegarli per finalità di solidarietà europea. Molto rilevante è anche il modo con cui il debito verrà rimborsato: con nuove tasse (ancora da definire) che colpiscono attività economiche esterne all’Ue, come l’inquinamento da carbone di chi ha prodotto beni importati in Europa o la tassazione dell’attività economica dei grandi operatori del digitale (in generale questi sono statunitensi o cinesi). In questo senso l’Ue si sta anche dotando di una più forte politica estera: dovrà infatti scegliere chi e cosa tassare, scontentando l’una o l’altra potenza; ma questa è l’essenza della politica estera.

Infine, qualche considerazione merita il processo attraverso il quale si è pervenuti a prendere tali decisioni: un estenuante negoziato durato quattro giorni e quattro notti. Questo per la verità non è stato storico: molti negoziati all’interno dell’Ue durano per giorni e notti; inoltre non è stato nemmeno stabilito il record di durata: pare che le negoziazioni per il trattato di Nizza del 2000 siano durate qualche minuto di più… Il punto centrale è che su temi come il bilancio dell’Unione il Consiglio europeo decide all’unanimità: anche un singolo Paese, non importa quanto piccolo in termini di popolazione, può porre il veto a ogni accordo. In questo caso, il “blocco” da parte del governo dei Paesi Bassi, cui si sono associati i governi di Austria e, in buona misura ma più defilati, Danimarca, Svezia e in parte Finlandia, è stata la causa principale del difficile negoziato. La regola dell’unanimità conferisce potere di veto anche a un solo Stato: non solo sugli altri Stati, ma anche sul Parlamento europeo che deve anch’esso approvare il bilancio, ma può deliberare su di esso solo dopo che il Consiglio europeo (dove si riuniscono i governi degli Stati nazionali) ha a sua volta approvato una proposta. Orbene, la stragrande maggioranza dei membri del Parlamento europeo era a favore di un pacchetto più ambizioso di quello che alla fine è emerso dal Consiglio europeo, ma questo non ha impedito a Paesi che, nel loro insieme, rappresentano circa 45 milioni di abitanti su circa 450 milioni di cittadini europei di portare a estenuanti negoziati e a una proposta leggermente (ma non troppo) ridotta rispetto al progetto iniziale (invero, la partita è tuttora aperta perché ora il Parlamento europeo deve appunto approvare la proposta, e potrebbe anche respingerla; non a caso, una leader molto sensibile e attenta al rispetto delle regole quale Angela Merkel, cancelliere della Germania, si è immediatamente rivolta al Parlamento europeo quasi scusandosi se il Consiglio europeo non ha tenuto forse sufficientemente in considerazione la posizione del Parlamento).

Gli Stati che si sono opposti alla proposta iniziale hanno ottenuto varie concessioni specifiche (e ben poco “storiche”). Tuttavia è da notare che nessun Paese ha optato per restare fuori (ricordate il Regno Unito? Prima della Brexit il governo britannico aveva spesso preteso e ottenuto che il Regno Unito fosse del tutto esentato dal partecipare a nuove forme di integrazione europea: in questo caso invece nessuno si è chiamato fuori). È inoltre un notevole risultato anche il fatto che tutti i ventisette Paesi dell’Ue, compresi gli otto non nell’area dell’euro, partecipino collettivamente al Fondo per la ripresa. Infine è anche da notare che i Paesi oppositori hanno fatto ben poco proselitismo: solo a inizio luglio, per l’elezione del nuovo presidente del Consiglio dei ministri delle Finanze dei Paesi aderenti all’euro (Ecofin), si era manifestato uno schieramento di una decina di Stati “piccoli” che hanno fatto eleggere il ministro delle Finanze dell’Irlanda quale presidente Ecofin. Ma ora molti dei Paesi che votarono per un esponente dei “piccoli” alla guida dell’Ecofin per limitare l’influenza dei Paesi più grandi e popolosi hanno invece appoggiato la proposta del Recovery Fund nella sua versione maggiormente ambiziosa: dai baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) ai Paesi dell’Est membri dell’euro come Slovenia e Slovacchia, a Belgio e Lussemburgo, all’Irlanda che aveva appunto ottenuto la presidenza dell’Ecofin.

Questa considerazione ci permette di trarre un ultimo insegnamento utile dalle vicende del negoziato europeo: la regola dell’unanimità va certamente superata, ma fa parte dello spirito dell’Ue, ben interpretato in questa occasione da Angela Merkel, quello di ricercare, sempre e ostinatamente, il consenso di tutti e di tenere “tutti a bordo”, perché in fondo l’Ue è la casa comune di tutti.

 

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