Una leggendaria carriera nel pugilato ma entra nella storia anche per il suo impegno contro la guerra del Vietnam e, soprattutto, contro la discriminazione razziale
di Marco TESTI
Muhammad Ali, nato Cassius Marcellus Clay Jr. se ne è andato sabato in una clinica dell’Arizona. Aveva mandato al tappeto macchine da pugni, montagne di muscoli, bisonti umani, e poi, come se la vita gli avesse prescritto di lottare sempre e comunque, aveva ingaggiato una lunga lotta con il Parkinson, durata trent’anni. Roma se lo ricorda bene, quando a 18 anni aveva vinto la medaglia d’oro olimpica, inaugurando una leggendaria carriera che lo avrebbe visto per molti anni icona assoluta della boxe e non solo. Certo, per la sua velocità, per il suo celebre gioco di gambe, per la capacità di anticipare i colpi di pugili sulla carta più potenti di lui, ma anche per il suo impegno contro la guerra del Vietnam che gli costò il ritiro della licenza da parte delle associazioni pugilistiche Usa. Anche la sua conversione all’islam e la rinuncia al suo vecchio nome fecero scalpore.
Ma la sua battaglia vera è stata quella contro la discriminazione razziale, a fianco di Martin Luther King e Malcom X, perché quelli erano gli anni in cui un cameriere si poteva rifiutare di servirlo, come successe negli Stati Uniti, dopo le Olimpiadi di Roma, in quanto nero. Ha fatto le barricate a modo suo per il riconoscimento della pari dignità di tutti gli esseri umani, ma barricate fatte di stoffa dei guantoni, di corde che delimitano il ring, di sudore, di rischi per i colpi presi (taluni imputano il precoce Parkinson proprio ai traumi subiti durante i tanti incontri), dentro la dimensione dello sport. A modo suo una via pacifica alla liberazione dalle catene razziali e all’emancipazione di gente di cui si era pian piano accorto di essere divenuto una guida e una speranza. La prova che la volontà, il coraggio, l’uso dei doni che Dio ha profuso sono importanti tanto quanto lo studio per chi ha avuto la fortuna di poterselo permettere. Palestra, strada, sterrato, e poi ancora palestra e guantoni anche per dieci ore, con metodi massacranti in età non più giovanile, significa sopravvivere in un ambiente spesso ostile senza chiedere sconti, mettendo tutto se stesso nella scommessa di volare più alto.
Muhammad Ali ha mostrato che si può sopravvivere alla segregazione razziale, alle violenze, a una società ingiusta senza per questo fare ricorso alla violenza e all’illegalità. Quando quella illegalità si è profilata come scelta, il campione l’ha fatta sua per combattere contro la violenza vera, quella di una guerra. Sta qui tutto il senso di una apparente contraddizione: lo sport anche estremo resta una scelta e un modo di combattere le avversità della vita, ma la guerra è un’altra cosa. E lui l’ha combattuta a rischio di essere fatto fuori dal suo habitat naturale, il ring.