Il testo varato è l’ennesimo tentativo e non registra passi in avanti significativi rispetto alla cosiddetta “solidarietà” a più riprese evocata in questi ultimi anni, soprattutto dai Paesi di primo arrivo come l’Italia
di Oliviero
FORTI
Responsabile dell’Ufficio politiche migratorie di Caritas Italiana
Il testo varato venerdì 9 giugno a Lussemburgo, dopo un duro confronto tra i Ministri degli Interni europei, non registra passi in avanti significativi rispetto alla cosiddetta “solidarietà” che a più riprese è stata evocata in questi ultimi anni, soprattutto dai Paesi di primo arrivo come l’Italia. Infatti, il ricollocamento dei migranti che giungono attraverso le frontiere esterne dell’Europa, non sarà obbligatorio in quanto ogni Paese sarà libero di scegliere tra il ricollocamento dei migranti provenienti dai Paesi di primo ingresso o il pagamento di 20 mila euro per ogni migrante non ricollocato. Dunque, basta pagare per non vedersi assegnare migranti. Nei fatti si tratta di una mercificazione che si traduce in un fallimento politico, nonostante sia stato presentato come un grande risultato, in termini di solidarietà, capace di alleggerire il peso sui Paesi di primo arrivo. Evidentemente non sarà così.
Nonostante l’Italia abbia tentato di imporre la sua linea circa il ricollocamento obbligatorio, tuttavia la netta contrarietà dei soliti noti (Paesi di Visegrad) ha portato a una soluzione ibrida (ricollocamento/pagamento) che non produrrà, però, gli effetti sperati, vista anche la complessità di un meccanismo come quello elaborato.
Giudizio negativo
L’Italia ha ceduto a questo compromesso dietro la promessa di consentire agli Stati membri la possibilità di stringere accordi con Paesi terzi, a partire da quelli di transito, dove espellere gli irregolari che non si riescono a rimpatriare nei Paesi d’origine. La Germania ha accettato, in maniera poco entusiastica, questa proposta solo con la previsione che si tratti di Paesi terzi sicuri, dove il migrante abbia maturato una connessione effettiva se non addirittura familiare. Evidentemente non potrà essere la Libia uno dei paesi dove rinviare i migranti, né tanto meno quei Paesi dell’Africa sub sahariana o del Medio Oriente dove i diritti umani sono costantemente a rischio. Anche in questo caso il giudizio non è positivo: oltre ai noti rischi nel rinviare un migrante in un Paese diverso da quello d’origine, si aggiungono le complessità procedurali che conosciamo molto bene, a partire dalle procedure di identificazione e dalla reale capacità di stringere accordi con Paesi che non è assolutamente scontato che si renderanno disponibili ad accettare sul territorio persone che non sono propri cittadini.
Infine, anche la previsione di procedure di frontiera obbligatorie, con lo scopo di valutare rapidamente alle frontiere esterne dell’Ue se le domande sono infondate o inammissibili, appare una scelta non condivisibile nella misura in cui non solo si presta a possibili violazioni dei diritti dei richiedenti la protezione internazionale, ma richiede uno sforzo organizzativo che, visti i numeri degli sbarchi di quest’anno, non è immaginabile in Italia e negli altri Paesi di primo ingresso.
L’accordo raggiunto a Lussemburgo è l’ennesimo tentativo di ricomporre posizioni molto diverse sul tema dei migranti che sono ancora ispirate, però, a interessi meramente nazionali, molto lontani dallo spirito di solidarietà europea che troppo spesso, in maniera inopportuna, viene richiamato dai decisori politici.