Escalation di violenza nella Striscia di Gaza: oltre 380 razzi, colpita anche Tel Aviv, 22 morti tra palestinesi e israeliani. L’opinione di a Khaled Fouad Allam
a cura di Daniele ROCCHI
Agenzia Sir
Sempre più alta la tensione fra Israele e Hamas: i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza hanno bersagliato, dopo 21 anni, anche Tel Aviv, scatenando la violenta risposta dell’esercito israeliano, che ha richiamato 16 mila riservisti in gran parte appartenenti a fanteria e genio. Il bilancio parla di 19 morti palestinesi, 3 israeliani, 200 feriti a Gaza. Complessivamente, tra mercoledì e giovedì, i razzi partiti da Gaza sarebbero oltre 380, “centinaia” gli obiettivi colpiti. Almeno 25 i missili intercettati dal sistema di difesa israeliano.
Dopo la breve visita del premier egiziano Hisham Kandil, domani nella Striscia è atteso il ministro degli Esteri tunisino, Rafiq Abdessalam. Da più parti arrivano appelli alla calma e alla moderazione, mentre il vicepremier di Ankara, Bulent Arinc, ha proposto a Israele di avviare un dialogo per porre fine alla crisi. Un invito importante che giunge nonostante lo stop, lungo due anni, delle relazioni bilaterali verificatosi dopo l’assalto israeliano alla flottiglia per Gaza che fece 9 vittime fra gli attivisti turchi nel 2010.
Nel frattempo nel Sud d’Israele, le scuole sono state chiuse fino a un raggio di 40 km da Gaza. In Israele e in Cisgiordania è stato elevato lo stato di allerta per timore di attentati terroristici. Lo stesso lungo i confini con Libano e Siria. Della crisi a Gaza parla Khaled Fouad Allam, docente d’Islamistica all’Università degli studi di Urbino, a margine del convegno organizzato dall’Istituto Maritain e dall’associazione “Rondine Cittadella della pace”, in corso ad Arezzo su “Pace e guerra tra le nazioni a 50 anni dalla Pacem in Terris”.
Quanto sta accadendo in questi ultimi giorni nella Striscia di Gaza ci riporta indietro di quattro anni, alla sanguinosa operazione israeliana “Piombo fuso”…
Il contesto attuale, rispetto a quello del dicembre 2008, quando prese corpo l’operazione “Piombo fuso”, è piuttosto diverso. Non si può analizzare il conflitto israelo-palestinese senza tenere in considerazione quello che sta accadendo a livello mondiale in questi ultimi anni, in particolare il vuoto politico riguardo a questo ultradecennale conflitto. Si tratta di un fattore molto pericoloso poiché l’assenza di un interlocutore e di un tavolo di negoziato può dare libero corso al conflitto del quale viene occultata la dimensione politica. A questo si aggiunga che la crisi in atto capita in un momento di grande cambiamento storico per il Medio Oriente, con la cosiddetta “Primavera araba” che ha visto affermarsi, nella gran parte dei casi, i Fratelli Musulmani con la nebulosa dei Salafiti. Questo rende più complicato l’agone. Siamo all’inizio di una crisi che, se non si ferma subito, potrebbe degenerare pericolosamente in tutta la regione e non solo.
Quali, a suo avviso, le cause di questa crisi? Solo il lancio di razzi palestinesi o l’avvicinarsi delle elezioni israeliane che vedrà, a gennaio 2013, il premier Netanyahu alleato con il leader della destra Lieberman?
Ogni lettura ha una sua validità, anche quella elettorale. L’attacco potrebbe avere un peso sull’elettorato israeliano creando forte consenso politico. Va, tuttavia, tenuta in considerazione anche l’enorme pressione araba e delle sue ali più radicali che, in assenza d’interlocutori, Europa e Usa in testa, crea i presupposti per la degenerazione della crisi.
Una vittoria di Netanyahu al voto di gennaio potrebbe ulteriormente radicalizzare le posizioni in campo, israeliane e palestinesi, e allontanare così un’eventuale ripresa negoziale?
Viviamo in una fase storica in cui tutto si sta radicalizzando, anche nel mondo arabo e a Israele. E questo ha luogo quando vengono a mancare la visione e lo spirito del saper vivere insieme e la capacità di usare un linguaggio politico in grado di attuare negoziati. La radicalizzazione delle coscienze comporta scelte politiche pericolose.
Rispetto al conflitto del 2008, in cui Hamas era isolata, ora la fazione islamica che governa la Striscia, sembra avere l’appoggio di Turchia, Qatar, Egitto. Quanto complica la soluzione della crisi?
Oggi siamo nel contesto inedito della rivolta araba che ha visto un profondo cambiamento della situazione nella regione, a partire dalla classe dirigente con alcuni leader molto legati a ideologie fondamentaliste islamiche e a settori integralisti, pericolosi, come quelli dei Salafiti. In questo nuovo contesto Hamas ha trovato supporto. Ciò accade, ripeto, in un momento preoccupante in cui interlocutori, come Usa e Ue, sono colpiti da una grave crisi economica che fa dimenticare un conflitto che si svolge a soli 300 chilometri da noi.
È più assordante il silenzio degli Usa o dell’Unione europea?
Per Obama, al suo secondo mandato, dovremo aspettare per pronunciarci. Mi preoccupa moltissimo l’assenza dell’Europa, che ha rapporti storici con il mondo arabo e con l’Islam. La sua impossibilità di posizionarsi di fronte al Medio Oriente è un problema geopolitico. Il continente europeo pagherà molto questa assenza nei prossimi anni.
C’è ancora spazio per una soluzione negoziata della crisi israelo-palestinese?
Questo è un conflitto paradigmatico in quanto è un anello di congiunzione fra Ottocento, Novecento e Terzo Millennio. Non prevedo nulla, ma vedo che sono subentrati altri interlocutori, assenti fino a pochi anni fa, che sono in modo particolare la Turchia e l’Asia. Il mondo è decentrato, abbiamo una molteplicità di centri e questo rende complicato trovare una soluzione.