In occasione del 70° del referendum istituzionale il Capo dello Stato ha rilasciato un’intervista ai settimanali cattolici diocesani
Nei giorni in cui si festeggia il 70esimo anniversario della Repubblica italiana, la Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc) abbiamo posto alcune domande al presidente Sergio Mattarella. Ci siamo concentrati sullo stato di salute dell’Italia, del suo popolo, del valore della festa del 2 giugno e sul ruolo dei cittadini credenti nella partecipazione alla cosa pubblica.
Presidente, la Repubblica compie 70 anni. Dalle macerie della guerra è cominciata una storia democratica, di ricostruzione, di crescita civile e sociale. Tante sono state le cadute e le ferite del Paese, tuttora sono presenti gravi contraddizioni sociali, ma grandi potenzialità e opportunità sono aperte davanti a noi. Eppure si avverte più del passato la sfiducia verso la politica e le istituzioni, come dimostra anche l’assenteismo elettorale. Forse la Repubblica è arrivata a settant’anni in condizioni precarie di salute?
Viviamo un cambio d’epoca che sta dischiudendo orizzonti inediti e problemi nuovi per le nostre società. La velocità dei cambiamenti tocca il potere, gli ordinamenti, l’economia e incide sui sentimenti stessi dell’uomo. Compito di una comunità, di un popolo, è esserne all’altezza, guidare le trasformazioni, trasmettere opportunità e dare speranza alle generazioni più giovani. La Repubblica ha avuto in questi decenni una capacità unificante per gli italiani. Ha favorito e accompagnato lo sviluppo democratico del Paese, dopo aver raccolto il testimone di un’Italia umiliata e divisa. La Repubblica è la nostra casa comune. La Repubblica ci ha reso tutti responsabili e artefici del nostro destino. Non è il luogo che annulla le differenze, che nega il conflitto, che cancella le contraddizioni del tempo. E’ un patrimonio condiviso, che può valorizzare le nostre diversità e renderci tutti più forti e più competitivi.
Molti sostengono che all’Italia sia mancato il senso forte della nazione. Il nostro è il Paese dei tanti campanili… Considera questo un handicap all’epoca della globalizzazione?
La Repubblica è nata in una nazione divisa dalle vicende della guerra e ha contribuito, in modo decisivo, a ricostruirne coesione e identità. È riuscita a farlo proprio perché ha rinunciato alla vecchia retorica nazionalista, quella che aveva sospinto l’Italia verso il disastro. La forza della Repubblica, e della sua Costituzione, sta nelle radici piantate sui valori universali della persona, dell’uguaglianza tra gli uomini, della libertà, della solidarietà. Con la Repubblica gli italiani hanno visto riconosciuti i diritti individuali e sociali e quelli delle comunità locali, sono diventati costruttori di una democrazia non solo formale, ma orientata a «rimuovere gli ostacoli» che impediscono la piena attuazione del principio di uguaglianza. È’ un tema che vale per le tante periferie del nostro Paese, territoriali e sociali. La cittadinanza repubblicana ha il diritto di esprimersi compiutamente in tutte le nostre contrade! Anche in quelle più remote. Nella modernità saranno più forti i Paesi che hanno basi etiche condivise e che, in virtù di queste, saranno aperti al mondo e contribuiranno al governo globale. La prova decisiva, per noi, è l’Europa. Essere italiani ed europei non è in contraddizione. Anzi, è un ampliamento della nostra identità. La sfiducia verso il potere scaturisce in gran parte dalla crisi del progetto europeo, dal senso di impotenza che ne deriva e dall’illusione di rifugi nazionalistici.
Perché in Italia la Festa della Repubblica non è delle più popolari?
Benché la Repubblica sia stata un potente vettore della ricostruzione del Paese, non sempre le è stato riconosciuto questo merito storico. Le ragioni sono comprensibili: il referendum istituzionale segnò una frattura nel Paese. La preoccupazione dei principali leader politici fu, da subito, quella di non cristallizzare la contrapposizione Repubblica-monarchia, di ricomporre nel nuovo ordinamento l’unità di popolo e dello Stato. L’accento venne posto con maggior forza sulla Costituzione e sui principi democratici fondativi. Ma, a ben guardare, proprio la scelta repubblicana risultò il collante più robusto. Senza di essa i principi della nuova Costituzione non avrebbero avuto la forza coesiva che hanno avuto. Il patto di cittadinanza, posto a fondamento della Repubblica, ha sollecitato responsabilità condivise e ci ha reso partecipi dei beni comuni così come delle comuni difficoltà. I venti della Guerra fredda e della contrapposizione ideologica hanno soffiato a lungo sui partiti, tuttavia la consapevolezza di dover difendere insieme la Repubblica e la sua Costituzione ha aiutato a rafforzare la responsabilità nazionale pur in una conflittualità a tratti molto aspra. La scelta repubblicana, insomma, ha indirizzato l’evoluzione culturale del Paese e delle sue formazioni sociali.
Una responsabilità non secondaria nell’avvio e nel consolidamento della Repubblica è toccata, fra gli altri, alla classe dirigente di ispirazione cattolico-democratica. Lo Stato unitario era nato nel conflitto con il Papa Re e la ricomposizione, avvenuta sotto il fascismo, se superò la questione romana, non risolse il tema della partecipazione dei cittadini credenti alla cosa pubblica…
La Repubblica è stata la grande scuola di democrazia per i cittadini italiani e per le culture politiche che si sono diffuse nel dopoguerra, e che hanno assunto una dimensione popolare nei partiti di massa. I cattolici-democratici hanno contribuito in maniera significativa all’affermazione della democrazia nel nostro Paese, al suo sviluppo e a quello dell’Europa. Guardando indietro la storia, una delle cose più belle è stata proprio la crescita nel confronto. Le culture si sono influenzate, hanno preso qualcosa dagli altri, anche dagli avversari, e l’hanno fatto proprio. «Quello che voi siete, abbiamo contribuito a farvi essere – disse Aldo Moro in uno degli ultimi discorsi pubblici -. E quello che noi siamo voi avete aiutato a farci essere». Abbiamo affrontato enormi difficoltà e tuttora ci sentiamo inappagati. La politica democratica deve sempre tendere al miglioramento. Mi auguro però che non si perda mai la consapevolezza della casa comune. Lo dico anche pensando alla dialettica di oggi e quella che avremo domani. La Repubblica siamo noi: non può esserci conflitto politico che ce lo faccia dimenticare. La Repubblica è comunque affidata al nostro comune impegno. Confido anche sul contributo della stampa che trova nella radice dell’informazione locale una propria preziosa ragion d’essere, per sollecitare questa consapevolezza.