Martedì 17 maggio i 50 anni dall'omicidio del Commissario celebrati in una Messa presieduta dall’Arcivescovo in San Marco. Il giornalista tratteggia il profilo del padre, il percorso di perdono compiuto dalla madre, quello di riconciliazione affrontato da lui e dai fratelli e l’evoluzione nell’atteggiamento della città in questo mezzo secolo
di Stefania
Cecchetti
Un importante segno di attenzione della Chiesa ambrosiana, che va in qualche modo a «chiudere un cerchio». Mario Calabresi, giornalista e scrittore, parla così della celebrazione eucaristica nel cinquantesimo anniversario dell’uccisione di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, che l’arcivescovo Delpini presiede martedì 17 maggio, alle 10, nella chiesa di San Marco a Milano (leggi qui la sua omelia), prima tappa di una mattinata che proseguirà con una cerimonia in Questura.
Per lei e per la vostra famiglia che significato ha che la commemorazione cominci con una celebrazione officiata dall’Arcivescovo di Milano?
Ci sembra un gesto di attenzione molto importante. Tra l’altro non era più accaduto che si celebrasse una Messa in onore di mio padre nella stessa chiesa dove si tennero i funerali. Per mia madre Gemma si chiude idealmente il cerchio iniziato quando il cardinale Giovanni Colombo, allora Arcivescovo di Milano, commentò il necrologio pubblicato dalla famiglia sul Corriere della Sera – la frase di Gesù dal Vangelo di Luca: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» – definendolo «un fiore deposto sul sangue» del Commissario, che non sarebbe mai appassito. Quella frase dell’arcivescovo Colombo per mia madre è stata illuminante e ha incoraggiato il suo percorso di fede e riconciliazione. È molto significativo che la memoria dei cinquant’anni si celebri nella stessa chiesa del funerale e presieduta dall’attuale Arcivescovo.
Nel suo libro La crepa e la luce Gemma Calabresi ha raccontato il suo cammino di perdono. Qual è stato il percorso di voi figli?
Quello di mia madre è stato un percorso di fede e perdono, il nostro più un percorso di riconciliazione e pacificazione. Per lei è stata una cosa più profonda, noi fratellinon aspiriamo alla santità, come dico a volte scherzando.
A proposito di santità, che cosa pensa dell’ipotesi di beatificazione avanzata per suo padre anni fa?
Come ha scritto nel suo libro, mia madre non la comprendeva e nemmeno io. Il modo in cui mio padre interpretava il suo lavoro ha testimoniato, semplicemente, qual è la maniera giusta di fare le cose, tutti i giorni. Non c’è nessun elemento di straordinarietà nella sua storia, non era un eroe.
Qual è stato invece il percorso di Milano? Com’è cambiato l’atteggiamento della città verso suo padre e le altre vittime del terrorismo?
La città è cambiata tantissimo e lo racconterò martedì alla commemorazione. Bisogna essere onesti, è stata una città per tanto tempo divisa, Una minoranza, direi silenziosa, ci mostrava affetto, ma c’erano anche ambienti che vivevano con imbarazzo il cognome, il ricordo di lui. Abbiamo dovuto aspettare quarant’anni per vedere la targa in via Cherubini (luogo dell’omicidio, ndr), e grazie al Presidente della Repubblica Napolitano, non a un sindaco della città. Adesso, però, le cose sono diverse: basta vedere quante persone vanno a portare un fiore sulla targa, quanti fermano mia madre per strada…
Cosa può rappresentare Luigi Calabresi per un giovane oggi?
Credo sia davvero una figura lontana, per i ragazzi di oggi. Se però si racconta di lui, penso possa rappresentare ancora un esempio per dimostrare due cose: primo, la pericolosità di certi linciaggi acritici, in cui i singoli seguono un flusso senza costruirsi un’opinione personale, l’orrore di certe deliranti campagne stampa, che un tempo si facevano con le firme, oggi con i like. Secondo: penso che la storia di mio padre dimostri che la violenza politica non porta a nessun cambiamento.
Parlando in Parlamento nella Giornata delle vittime del terrorismo lei ha detto che gli anni di piombo hanno qualcosa da dirci anche sull’Ucraina…
Gli anni di piombo ci insegnano che non è affatto scontato rendersi conto che non esistono giustificazioni per gli aggressori. La nostra società ci ha messo moltissimi anni a raggiungere questa consapevolezza: c’era chi giustificava in qualche modo il terrorismo e questo è stato devastante. Se abbiamo imparato la lezione, oggi non dovremmo esitare a chiamare le cose con il loro nome, al di là di tutte le giuste riflessioni sulle cause e sulle conseguenze.