Il nuovo presidente nazionale: «La proroga del blocco dei licenziamenti è fondamentale. Il dopo richiede una visione strategica e riforme strutturali»

di Stefano De Martis

Emiliano Manfredonia
Emiliano Manfredonia (foto Acli)

«Il “decreto sostegni” va nella direzione giusta e allo stato non ci si poteva aspettare molto di più. Si tratta piuttosto di verificare se gli interventi e le erogazioni saranno attivati nei tempi necessari per svolgere la funzione di protezione sociale a cui sono destinati. Per il futuro, però, ci aspettiamo delle scelte strategiche di ampio respiro». Emiliano Manfredonia, classe 1975, pisano, è da un mese il nuovo presidente nazionale delle Acli, eletto dal congresso in un’inedita versione online, come ormai accade in tutti gli ambiti sociali. Spiega Manfredonia: «La proroga del blocco dei licenziamenti, per esempio, è fondamentale. Anche come Acli l’avevamo chiesta con insistenza, ma il dopo richiede una visione strategica e riforme strutturali, cogliendo in pieno l’opportunità del Next Generation EU che, fuori da ogni retorica, dev’essere il cacciavite per sistemare o scardinare meccanismi inceppati da decenni».

Nel discorso al primo Consiglio nazionale del suo mandato, sabato scorso, il neo-presidente aveva rilanciato «il tema della piena occupazione e il diritto/dovere al lavoro», citando esplicitamente l’articolo 4 della Costituzione. «Non bastano misure volte a sostenere il lavoratori colpiti dalla crisi e la garanzia di un reddito per i cittadini se quello che manca è l’occupazione – aveva sottolineato in quella sede Manfredonia – e purtroppo mancano anche servizi per il lavoro, investimenti in formazione iniziale e in formazione continua». E poi c’è lavoro e lavoro. Dopo le battaglie dei rider, il primo sciopero generale dei lavoratori di Amazon è la manifestazione eclatante di un problema che ha ramificazioni più larghe e profonde. Il presidente delle Acli parla di «lavoro buono», cioè «dignitoso» a fronte di un «lavoro povero» non solo per l’assenza di una retribuzione adeguata, ma povero anche «dal punto di vista relazionale, qualitativo formativo e di crescita, in quanto in esso la carenza o la debolezza di diritti, collettivi e individuali, inibisce l’ordinato sviluppo della persona umana e della stessa società».

Un altro tema strutturale che non sembra ancora trovare il giusto rilievo nel dibattito intorno al piano europeo è quello del calo demografico, ulteriormente acuito dalla pandemia. Perché in Italia, dove il problema è a livelli drammatici, non si riesce a metterlo al centro?
Purtroppo, duole dirlo, è la sorte che tocca ai temi di lunga prospettiva, senza immediati riscontri in termini elettorali. Adesso ci aspettiamo almeno che si porti a compimento la misura dell’assegno unico per i figli, ma bisognerà cogliere l’occasione straordinaria del Recovery Plan per ulteriori progetti di sistema. Sappiamo bene che è l’incertezza sul futuro uno degli impedimenti più forti alla scelta di fare dei figli. Intanto, però, si potrebbe porre attenzione ai carichi familiari nei provvedimenti che vengono presi per tamponare l’emergenza. Anche negli ultimi interventi il tema è stato ancora una volta trascurato.

La povertà è una delle grandi “fratture” – come le ha definite il cardinale Bassetti – provocate dalla pandemia. Il Reddito di cittadinanza si è rivelato uno strumento importante per fronteggiare l’impennata del fenomeno, ma ha mostrato anche i suoi limiti…
Lo dimostra tra l’altro il fatto che sia stato necessario introdurre misure aggiuntive come il Rem, il Reddito d’emergenza. Una messa a punto del Rdc richiede almeno tre tipi di correzione. Bisogna intervenire sulla scala di equivalenza, che penalizza le famiglie numerose, e sul requisito abnorme dei dieci anni di residenza in Italia. In entrambi casi oggi si tagliano fuori paradossalmente le fasce di popolazione in cui il rischio di povertà è più forte. C’è poi da individuare il meccanismo più efficace per evitare che la percezione del reddito diventi un disincentivo alla ricerca di un lavoro. Più in generale va ripensata la presa in carico da parte dei servizi sociali, su cui bisogna tornare a investire. Comuni e Terzo settore sono i soggetti più titolati ad affrontare un problema multidisciplinare come la povertà. E questo discorso ci porta anche al più ampio dibattito in corso sul welfare post-pandemia che deve uscire dalle contrapposizioni ideologiche. Occorre lavorare alla costruzione di un welfare inclusivo e pluralista, costruito insieme alla comunità, regolato da intrecci creativi e da una governance aperta, sostenuto da una co-progettazione che coinvolga attori diversi: dal volontariato al Terzo settore, appunto, dal privato al pubblico.

A proposito di Terzo settore, il “decreto sostegni” ha incrementato il fondo straordinario…
È un dato certamente positivo. Ma ciò non toglie che il Terzo settore sia sempre messo all’ultimo posto o recuperato in extremis, nel migliore dei casi. In concreto, da ottobre non abbiamo visto ancora un euro e molti dei nostri circoli – che abbiamo messo anche a disposizione per la campagna vaccinale – rischiano di non riaprire più. Peraltro i nostri servizi hanno continuato a fornire un contributo costante: pensi che in meno di un anno il sito del Patronato è stato visto da 3 milioni e 400 mila utenti. Ma per un’associazione come la nostra le relazioni personali sono un punto di forza imprescindibile e ci stiamo preparando per ripartire alla grande appena sarà possibile.

 

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