La base per stare insieme è un progetto condiviso. Occorre essere convinti che l’unione è necessaria. Esiste un patrimonio di valori “europei” da difendere e valorizzare. Il vero “europeista” non si sottrae al dibattito su “quale Europa vogliamo”. E il dibattito interpella anche le coscienze dei credenti
di Guido
Formigoni
Docente di Storia contemporanea e Prorettore dell’Università Iulm
L’Unione europea sta vivendo mesi cruciali su diversi fronti: dalla Brexit alle elezioni del Parlamento di maggio. Si ha quasi l’impressione di stare su un crinale decisivo tra rilancio del futuro di questa iniziativa e avvio di un circolo vizioso di crisi e divisione. L’Europa è in questione. Perché ogni cittadina e cittadino compia le sue scelte con consapevolezza, è bene avere in mente l’orizzonte essenziale di problemi che ci sta davanti. Proviamo a riassumerli – senza aver spazio per approfondirli – in alcuni punti essenziali.
Primo. L’Europa non è un dato di fatto: non è difficile constatare come non abbia evidenti basi comuni di lingua, storia, cultura, identità. I popoli europei stanno insieme solo se si accordano su un progetto condiviso per il futuro. Non si deve mai dare per scontato questo elemento, non si deve dare per ovvia l’identità europea, pena la sua sconfitta. Chi ci crede ha il compito di continuamente rimotivarla e rilanciarla all’altezza delle sfide dell’epoca. L’idea per cui il percorso «comunitario» iniziato settant’anni fa tra sei Paesi sia ormai irreversibile e non possa che avanzare, spesso coltivata dagli europeisti, è profondamente illusoria e sbagliata.
Secondo. L’Europa è davvero una necessità per il nostro futuro. Ma occorre spiegarlo non con un vago appello alla cultura delle origini o alle scelte dei nostri nonni. Sempre, l’Europa è stata un orizzonte di valore, che però ha funzionato quando costituiva una risposta elaborata a un problema politico reale. Originariamente, il problema della ripresa della Germania dopo trent’anni di guerre. Possiamo dire che oggi ci sia un problema analogo? A me pare del tutto evidente: dopo la crisi del 2008 e la «grande stagnazione» successiva, noi conosciamo un mondo in cui i giganti come Stati Uniti e Cina hanno rilanciato una statualità per governare la globalizzazione (bene o male che lo stiano facendo). Un appello forte in questa direzione oggi è più che mai opportuno: l’Europa non può mancare al tavolo. Occorre ribadire che non c’è futuro per piccoli-medi Stati europei, se si isolano stizzosamente tra di loro nel mondo dei giganti. Per cui la necessità dovrebbe muovere l’ingegno.
Terzo. Le acquisizioni della storia hanno distinto l’Europa da altre parti del mondo, costituendo ormai un patrimonio progettuale non trascurabile, se valorizzato. Si pensi al discorso sul metodo di rapporto tra gli Stati (metodo inclusivo e cooperazione invece che egemonie e imposizioni; capacità di governo dell’economia senza dirigismi, ma senza subalternità ai mercati). Si pensi all’originale modello sociale (una società che mira a integrare i perdenti lottando contro le diseguaglianze eccessive; rapporti di mediazione articolata tra i gruppi e i mondi sociali, invece che individualismo anglosassone o “collettivismo” asiatico; mediazione continua tra esigenze della crescita economica e esigenze della coesione sociale). E forse ancora più a fondo, c’è una concezione della persona umana al di sopra della sicurezza o della stessa coesione (integrazione delle diversità e anche delle religioni nel primato della coscienza, ma anche nel dialogo reciproco; rifiuto della pena di morte). Sono tutti tratti «europei» forti, non banali, che a volte sottovalutiamo, ma che vanno sempre aggiornati.
Quarto. Qualcuno oggi dice che il vero scontro è tra europeisti e «sovranisti» o «populisti». Mi pare uno schema riduttivo. Infatti, è ambiguo dire che stanno con l’Europa solo coloro che sostengono la linea politica e istituzionale dell’Unione negli ultimi anni, a partire dalla risposta alla crisi secondo le regole dell’austerità. L’Europa degli ultimi decenni ha seguito linee quanto meno controverse (lo ha ammesso a denti stretti, recentemente, lo stesso presidente della Commissione Juncker). Non è un caso che l’Unione europea “così com’è” si sia attirata molte contrapposizioni. Quindi potrebbe e dovrebbe essere un messaggio forte quello che dica: l’Europa è necessaria, ma apriamo un dibattito franco su «quale Europa» oggi vogliamo. I veri europeisti non si sottraggono a questa sfida.
Quinto. L’Europa interessa molto anche i credenti. La Chiesa cattolica può giustamente fare appello a tradizioni europeiste forti, da quando Pio XII ha proclamato san Benedetto patrono dell’Europa. Sulle «radici cristiane dell’Europa» si è discusso fin troppo: negarle è stato un patetico rifiuto della storia, affermarle come rivendicazione di un primato non ha aiutato una riflessione aperta. Anche in questo campo, però, non tutto è ovvio. I vescovi europei fanno ultimamente sempre più fatica a utilizzare questo retaggio per prendere posizioni comuni su temi delicati come le migrazioni (segnatamente, i vescovi dei paesi dell’Est spesso non si distaccano dai loro nazionalismi). C’è quindi un processo di purificazione e di auto-verifica della coscienza cristiana da sviluppare prima di poter lasciare un messaggio positivo. Sarebbe utile aprire un confronto libero e spregiudicato anche su come il cristianesimo parli oggi all’Europa.