Sono uscite dal Paese in macchina, a piedi, sul treno, salutando i loro uomini, per portare in sicurezza figli e nipoti. Ad accoglierle in Slovacchia un popolo a braccia aperte
di Maria Chiara
Biagioni
Agensir
Gli occhi pieni di lacrime. Il volto tirato. Le mani che tremano. Anche se visibilmente provate e stanche, hanno una grandissima voglia di raccontare cosa hanno visto, ma non cedono mai al pianto. Vogliono essere forti. Le donne ucraine sono così. Con una mano tengono in braccio i bambini, con l’altra si asciugano le lacrime per nasconderle.
Siamo nel Seminario di San Carlo Borromeo a Kosice, nella Slovacchia orientale. È la seconda città più popolosa del Paese. Si trova sul confine con l’Ucraina. Sacerdoti e seminaristi – racconta il vice rettore don Andrea Kacmar – hanno deciso di dedicare una parte della struttura per accogliere le donne in fuga dalla guerra. Sono una cinquantina con 24 bambini.
La storie di Kseniya e Angelica
Kseniya è una di loro. Ha 38 anni e con i suoi tre figli (il più piccolo ha 8 mesi) ha lasciato Uzhgofod. Nelle loro storie, c’è sempre un prima e un dopo. Kseniya faceva l’avvocato. Parla un inglese fluente. La sua era una vita normalissima. Poi sono cominciati gli attacchi aerei e hanno dovuto nascondersi sotto i rifugi sempre più spesso fino a che insieme al marito hanno capito che era meglio lasciare la città verso posti più sicuri. Partita sola in macchina con i tre figli, hanno fatto tappa in Ungheria, poi la fuga in Slovacchia. Arrivati ospiti nel Seminario maggiore di Kosice, quello che più colpisce Kseniya è il silenzio e i suoni normali della vita quotidiana. Ma i suoi figli continuano a chiederle: «Quando torniamo a casa?».
Angelica invece viene da Bucha, città vicina a Kiev. Presa di mira in maniera brutale dagli attacchi dei russi. Il suo racconto è una descrizione confusa e dolorosa di battaglie che ha visto in cielo e a terra. Elicotteri. Contraerea ucraina. Bombardamenti. «Delle persone – dice – sono state uccise» e quando il sindaco ha invitato la popolazione a lasciare la città, lei con la figlia e la nipotina di 3 anni hanno preso la macchina e sono andate via. Non si è portata via niente. È scappata con quello che aveva addosso. I mariti sono rimasti e stanno combattendo nelle divisioni locali di difesa.
«In città – racconta Angelica – i soldati entrano nelle case e distruggono tutto. Non c’è più acqua ed elettricità. Ci ho messo cinque giorni per uscire dall’Ucraina. Tornare indietro sarà forse impossibile, non abbiamo più dove andare». Poi si ferma. Alza il viso, cerca lo sguardo e dice: «Avevamo una vita normale. Avevamo tutto. Ora non abbiamo più niente. Questo significa essere rifugiati. È terribile».
Il “pellegrinaggio”
Le storie di Kseniya e Angelica si intrecciano con tante altre qui al confine slovacco-ucraino a Vysne Nemecke. Dalle sbarre del controllo di dogana, esce un lento, ma continuo “pellegrinaggio” di persone. Sono praticamente tutte donne e bambini. Si vede qualche anziano, per lo più solo. Arrivano con poche borse. Passeggini e cani al guinzaglio. Vengono accolte da militari e volontari di Croce Rossa, Caritas, chiesa cattolica locale, Ordine di Malta. Un po’ più in là ci sono le navette che portano all’hotspot di Michalovce dove possono ottenere i documenti necessari per lo status provvisorio di rifugiato e l’assistenza sanitaria. Tutto avviene con ordine e gentilezza. Le navette caricano e partono di continuo.
Ma i cuori sono spezzati e quello che più colpisce è un surreale silenzio. «I primi giorni del conflitto la situazione non era così. Era molto più caotica», ci racconta Miroslav Gieci, responsabile di turno dei volontari dell’Ordine di Malta. C’erano anche loro tra i primi a intervenire sul posto. Portando bevande calde. Cibo. Alimenti per i bambini. La gente arrivava con alle spalle un viaggio di tre-quattro giorni, spesso senza mangiare e bere. Molti, anche i bambini, li hanno trovati in uno stato di disidratazione. Ma quello che sin dall’inizio ha messo in allerta tutti i volontari era la presenza di sciacalli e approfittatori sul posto.
«Andavo a casa e non riuscivo a chiudere occhio al pensiero che qualcuno potesse entrare nella macchina sbagliata», ci racconta Miroslav, che di professione fa il venditore di libri. Ora la situazione è monitorata. La polizia fa controlli incrociati e capillari e sul campo è stata impiegata anche la guardia di finanza italiana.
La macchina umanitaria
Non c’è struttura della chiesa qui a Kosice che non sia stata coinvolta nella macchina degli aiuti umanitari. Gli ultimi dati rivelano che l’arcidiocesi ha dato la possibilità di un vitto e alloggio breve o a più lungo termine a 2.550 persone giunte dall’Ucraina. Quando è scoppiata la guerra, alla Domcek Anna Kolesavora di Vysoká nad Uhom hanno subito capito che gli ucraini sarebbero fuggiti dal loro Paese e che sarebbero arrivati in migliaia anche qui. La Domcek è un centro costituito da 4 case, tutte ristrutturate e ben curate. Ogni anno è mèta di almeno 5/8 mila giovani che arrivano qui per esercizi spirituali e incontri. Alcuni rimangono per un anno di volontariato. C’era un incontro sulla sinodalità quando le notizie dall’Ucraina sono diventati allarmanti.
«Ci siamo detti: fermiamo tutto e prepariamo subito la casa – racconta don Pavol Hudak -. Ci siamo messo in contatto con il sindaco e abbiamo cominciato a pulire la struttura e a cercare posti letto. La sera stessa tutto era pronto e quella notte sono arrivati da noi i primi 38 bambini con le loro mamme». In tutto sono passati da qui più di 400 persone. Ora la struttura accoglie i volontari che prestano servizio al confine.
Le donne, quando arrivano, sono stanchissime. Chiedono solo di poter dormire e mangiare. Hanno guidato la macchina per lunghi tragitti e sono disorientate. Per questo nella struttura si possono trovare ovunque mappe geografiche che permettono ai volontari di indicare dove sono e quale strada prendere per proseguire il viaggio. «Abbiamo visto mamme tirare le carrozzine con una mano e con l’altra tenere in braccio un bambino – dice il sacerdote -. Abbiamo visto mariti tornare indietro e donne piangere per ore nelle stanze». Ma il richiamo della vita è stato più forte di ogni resa, di ogni lacrima. Una mamma con due bambini ci ha detto: «Quando eravamo sotto nei rifugi, senza più cibo e acqua, abbiamo capito che era meglio rischiare la vita e uscire che morire di fame nei bunker». Le donne ucraine sono così, trattengono le lacrime, ma non smettono di lottare.