Ci saranno molti più lavori creativi che però avranno un carattere provvisorio. Anche dalle statistiche emerge uno scenario complesso
di Andrea CASAVECCHIA
Ancora una volta emergono segnali di un mondo del lavoro in ebollizione, che sta ormai abbandonando la forma assunta nel Novecento. Nessuno sembra porsi degli interrogativi sulle conseguenze future: da una parte quale modello sociale ne uscirà, dall’altra quali percorsi di vita personali si struttureranno.
Tre indicatori ci mostrano uno scenario complesso. In primo luogo c’è la staticità del mercato del lavoro, che stenta a recuperare il numero di lavoratori in attività precedenti alla crisi.
L’Istat avverte che nel mese di dicembre il tasso di occupazione non è cresciuto, è al 57,7%, come stabile è rimasto il tasso delle persone in cerca di lavoro, al 12%. Sono invece aumentati i giovani disoccupati, tornati sopra al 40%. Si conferma così che a subire le conseguenze maggiori delle trasformazioni in atto sono proprio i giovani.
Il secondo indicatore, in contrasto con il precedente, ci segnala la presenza di aziende che faticano a reperire personale. Un rapporto di UnionCamere sulla previsione di nuove assunzioni da parte delle imprese per i prossimi tre mesi ci mostra che su una domanda di oltre 580 mila posizioni – non tutte a tempo indeterminato e non tutte all’interno di un rapporto di lavoro subordinato – circa il 20% sarà difficile da trovare. C’è quindi un mismatch tra i mestieri e le professionalità che servono alle aziende e quelli di cui sono in dotazione le persone in cerca di occupazione. Qui, da una parte, c’è un problema formativo e di rapporto tra sistema d’istruzione e sistema di produzione; dall’altra parte, c’è un problema di aggiornamento perché le innovazioni tecnologiche e le riorganizzazioni dei processi produttivi richiedono ai lavoratori una continua disponibilità ad apprendere. È molto difficile oggi trovare lavori che non subiscono cambiamenti nel tempo a causa delle innovazioni continuamente introdotte.
Il terzo indicatore ci segnala le situazioni d’ingiustizia che si vengono a creare. Un economista dell’Ocse, Andrea Garnero, ha evidenziato in un suo studio che in Italia circa un lavoratore su dieci percepisce una remunerazione sotto il minimo contrattuale. In termini meno tecnici: è sfruttato. Questo accade in modo maggiore quando il lavoratore è donna, occupato in piccole imprese, nei settori dell’agricoltura, della ristorazione e delle costruzioni, e si trova nel Sud Italia. Non possiamo nasconderci la vulnerabilità che emerge in alcuni contesti e, soprattutto, per alcune persone. Appare evidente che in diverse situazioni le tutele classiche non sono riproducibili.
Gli indicatori mostrano un mondo del lavoro plurale, che forse non è più possibile affrontare dentro un’unica questione, né cercando una soluzione di sistema, perché forse un solo sistema neanche ci sarà. Sicuramente rimarrà una quota di lavoratori classici – impiegati, operai, ad esempio – ma saranno un numero estremamente ridotto rispetto al passato. Ci saranno molti più lavori creativi che però avranno un carattere provvisorio e ci saranno tanti lavori di relazione: da chi organizza eventi a chi assiste persone non autosufficienti. Come si renderanno meno precari e più sopportabili?