Dal wi-fi ai tablet, dalle Lim ai pc, agli smartphone: ma tutta questa tecnologia è davvero utile, funzionale ai processi scolastici? È per rispondere a questa domanda che serve tempo. E serve discutere
di Alberto CAMPOLEONI
Per la scuola 2.0 serve ancora tempo. E probabilmente, oltre al tempo, serve una approfondita riflessione, che non si lasci condizionare più di tanto dalle mode e dalla fretta, tipicamente “tecnologica”, di chi si è abituato ormai a volere risposte e soluzioni al ritmo di un processore di computer, sempre più velocemente, all’istante.
La scuola 2.0 lascia immaginare un trionfo della tecnologia, aule attrezzate con tutti quegli strumenti che oggi costellano la vita quotidiana delle persone e da quei mezzi specifici per la “didattica multimediale” spesso enfatizzati: dalle reti wi-fi ai tablet, dalle Lim ai pc, agli smartphone, passando per la “rottamazione” di libri e quaderni, e magari anche di carta e penna. Una scuola che adotta naturalmente il registro elettronico e fornisce gli studenti di badge d’ordinanza.
Ma tutta questa tecnologia è davvero utile, funzionale ai processi scolastici? È per rispondere a questa domanda che serve tempo. E serve discutere.
Una provocazione forte viene dal pedagogista Daniele Novara che, intervenendo sul Corriere della Sera per commentare la notizia dell’uso del badge elettronico al Parini di Milano, sostiene senza mezzi termini che «l’invasione tecnologica» nella scuola «non ha portato ad alcun miglioramento nei processi di apprendimento». E spiega: «La scuola italiana si attesta stabilmente agli ultimi posti di tutti gli standard internazionali di qualità scolastica. L’abbandono scolastico permane ai soliti tragici livelli di emergenza. L’impiego massiccio delle tecnologie sembra rispondere a necessità di marketing e a necessità di controllo degli studenti».
Una bocciatura senza appello. E c’è anche chi, come Adolfo Scotto Di Luzio, docente all’Università di Bergamo, scrive sui “rischi” della scuola 2.0 suggerendo tra l’altro che «l’uso di tablet rafforza una didattica volta a formare individui passivi oggi e politicamente ‘sudditi’ domani».
Naturalmente ci sono altre voci, che vedono nella “svolta digitale” della scuola una strada imprescindibile per adeguarsi ai nuovi stili di apprendimento dei giovani (anche loro e prima loro 2.0).
Il dibattito serve, così come è utile mettere a confronto le pratiche ormai già abbastanza consolidate anche nel nostro Paese, dove da tempo alcune scuole hanno avviato classi digitali.
Un’altra cosa utile è certamente quella di non fare… confusione, mettendo sullo stesso piano questioni anche molto differenti, per quanto collegate tra loro. Ad esempio, non è la stessa cosa parlare di tablet e Lim piuttosto che di badge e registro elettronico. Da una parte si tratta di misurarsi strettamente con strumenti e strategie per l’apprendimento, dall’altra con una razionalizzazione e modernizzazione più in generale dell’ambiente scolastico. Vero anche che questa seconda problematica incide comunque sulla prima, contribuendo a creare le condizioni perché una scuola funzioni bene o male (anche per quel che attiene in generale ai processi di insegnamento-apprendimento).
E che dire della decisione di dotarsi o meno di una infrastruttura di base come la connessione wi-fi nelle aule scolastiche? Un sindaco nella provincia di Ivrea – la notizia è di qualche tempo fa, ma fa ancora discutere – l’ha vietata per la “possibile pericolosità” delle onde elettromagnetiche. Connessione solo via cavo, dunque, “per precauzione”, in attesa di approfondimenti scientifici.
Già, approfondimenti. Il caso di Ivrea forse fa sorridere, ma quello di non dare niente per scontato è un buon principio.