Un cambiamento di governo - dai Socialisti ai Popolari di Rajoy - che coinvolge anche l’Unione Europea

di Gianni BORSA
Sir Europa - Bruxelles

La Spagna volta pagina, dunque, come ampiamente previsto dai commentatori politici e dai sondaggi. Il leader dei Popolari (Pp, centrodestra) Mariano Rajoy porta il suo partito alla maggioranza assoluta dei seggi – 186 su 350 – nel Parlamento di Madrid, con un solido 44,5% dei voti. I Socialisti di Alfredo Pérez Rubalcaba, designato alla sfida dopo le dimissioni del premier uscente del Psoe Luis Zapatero, si ferma a 110 seggi, con il 28,6% delle preferenze popolari. Crescono i partiti minori, come Convergenza e unione (catalani), la sinistra di Izquierda Unida e i separatisti baschi di Amaiur. Oltre a Pp e Psoe, alle Cortes saranno presenti sei diverse formazioni per un totale di 54 deputati. Elevata la partecipazione al voto, nonostante il fatto che gli indignados invitassero a disertare le urne, il che conferma il solido radicamento democratico della Spagna post-franchista.

Nel primo messaggio di saluto agli spagnoli, Rajoy ha indicato subito le sue priorità: crescita economica e occupazione. «Abbiamo davanti a noi un compito immenso», ha affermato, chiedendo uno «sforzo solidale» al Paese e ammettendo che «non ci saranno miracoli». La penisola iberica, toccata profondamente dalla crisi cominciata negli Stati Uniti nel 2008, ha la più alta percentuale di disoccupati: oltre il 21%, superando il 44% se si guarda alla realtà giovanile. L’opinione pubblica ha dunque voluto cambiare la guida politica, pur sapendo che i Popolari dovranno rimanere nella scia indicata – benché non efficacemente perseguita – dal premier uscente: rigore, sacrifici, aggancio all’Europa.

Nei giorni precedenti il voto, José Ignacio Torreblanca aveva svolto alcune interessanti osservazioni sul quotidiano El Paìs (18 novembre): «I due capitomboli elettorali più recenti nella storia della politica spagnola – quello del 2004 e quello previsto per domenica – sono avvenuti a seguito di due eventi (gli attentati di Madrid e l’aggravarsi della crisi dell’euro) che mostrano in maniera drammatica l’impossibilità di separare la realtà nazionale dal quadro internazionale». Nel 2011 come sette anni or sono (quando Zapatero sconfisse alle urne il popolare José Maria Aznar), «le sfide alla sicurezza (fisica nel 2004, economica oggi) che i cittadini si trovano ad affrontare non tengono conto delle frontiere nazionali». Come dire che gli esiti politici interni dipendono sempre di più dal quadro globale.

Non a caso i quattro più importanti Paesi mediterranei dell’Ue (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), tutti segnati dalla recessione e dall’instabilità dei conti pubblici, hanno registrato quasi contemporaneamente un cambio di governo. E, pur con accenti differenti, la risposta che i nuovi Esecutivi indicano è più o meno la stessa: fare ordine nel bilancio nazionale, puntare alla crescita interna, rafforzare la governance europea in una prospettiva di medio e lungo periodo.

Su questa strada si sta muovendo il neo-premier italiano Mario Monti, che ha deciso d’iniziare il suo impegno facendo visita a Bruxelles (22 novembre) e Strasburgo (24 novembre) per incontrare i leader Ue Van Rompuy e Barroso e i vertici politici di Germania e Francia, Merkel e Sarkozy. Decidere insieme le mosse da compiere, confermare la stima reciproca, individuare prospettive comuni d’azione (compresi gli eurobond e il fondo salva-Stati) e rilanciare l’Europa è già di per sé una buona ri-partenza.

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