A trent’anni dalle stragi del 1992 pubblichiamo la riflessione di Nando dalla Chiesa apparsa sul numero di maggio de «Il Segno»: «Superiamo la retorica della commemorazione per spiegare davvero perché i due magistrati sono morti e dare un senso ancora più alto alle loro vite»
di Nando
dalla Chiesa
Sociologo, scrittore e presidente onorario di Libera
Dal numero di maggio de Il Segno
Una cosa ho imparato frequentando gli anniversari degli eroi. Che commemorazione e memoria sono cose molto diverse.
La prima celebra l’eroe, gli rende omaggio, ma amputa la realtà, la libera dagli elementi di contesto più fastidiosi. Non ci dice per esempio se la vittima sia stata sempre circondata da stima e riconoscenza mentre si batteva in vita, o se invece abbia subìto forme di ostilità o addirittura di ostracismo. O se i suoi laudatori non abbiano per caso realizzato qualche convergenza mentale (non si dice di interessi) con i suoi carnefici.
La seconda invece scava, ripassa con scrupolo, non mette nulla da parte, colloca la persona ricordata in un fluire di successi e di insuccessi, di amicizie e di speranze, anche di illusioni. Proprio perché più attenta alla dimensione vera della persona, riesce a farne, involontariamente, un eroe che parla a tutti. E dà un senso più alto alle sue scelte, perché scaturite non da un eroismo mitologico, ma da una lotta costante tra il senso del dovere e le umanissime paure. Il ricordo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sfugge a questa tensione. Tra ricordo retorico e ricordo autentico; tra ricordo inquieto e ricordo inamidato.
Eppure, specialmente in questo caso, non ci dovrebbe essere spazio per dilemmi e altalene. La memoria è esigente, non fa sconti, chiede ammissioni di colpa, rifiuta le oleografie. Quando ricordiamo le persone veramente amate ci piace ricordarle anche con i loro difetti, che magari solo noi e pochi altri conosciamo. Ma al tempo stesso ci assalgono fiotti di malinconia quando pensiamo a quel che avremmo potuto dar loro in vita e non abbiamo dato.
«Cosa mi piacerebbe ascoltare»
Ecco, per il 23 maggio come per il 19 luglio, per Capaci come per via D’Amelio, nelle prossime settimane mi piacerebbe ascoltare commemorazioni che siano anche e soprattutto memoria. In cui la solennità sia data non dalla pompa magna degli scenari e dei protagonisti, ma dalla forza morale di riconoscere i torti della società italiana – non solo la mafia, non solo i colleghi invidiosi – davanti a queste due vite parallele che un giorno partirono dal quartiere della Kalsa di Palermo per essere messe al servizio del Paese e delle sue istituzioni.
Mi piacerebbe sentir dire che su quelle due stragi non ci sono alla fine troppi, e troppo grandi, misteri. Che tutto, nella sua mostruosità, si svolse sotto gli occhi di un’opinione pubblica, di un popolo – se vogliamo – che poteva vedere e capire, ma non seppe o non volle nemmeno farlo. Vorrei sentir dire che il progetto di uccidere Falcone, Cosa Nostra iniziò a coltivarlo dopo il processo Spatola, quello del follow the money, ossia nei primissimi anni Ottanta. E che non lo dismise mai, così da trasformare il giudice agli occhi di Palermo in «un morto che cammina».
Mi piacerebbe che qualcuno riprendesse il film delle due vite e lo srotolasse all’indietro, tornando a quando le lettere al Giornale di Sicilia reclamavano che i giudici antimafia fossero messi tutti a vivere su un’isola, per evitare il fastidio delle sirene e tenere al riparo degli attentati la gente per bene. A quando Paolo Borsellino venne indicato come «professionista dell’antimafia» per la colpa grave di avere vinto la Procura di Marsala superando un collega più anziano in virtù dei meriti conquistati sul campo della lotta alla mafia, in ispecie attraverso l’istruzione del maxiprocesso, quel trascurabilissimo episodio della storia giudiziaria italiana. Mi piacerebbe sentire dire che solo uno sparuto gruppo di militanti lo difese in quel frangente, mentre quasi tutti coloro che oggi lo onorano preferirono tacere o plaudire all’articolo che lo trasformava in un abusivo. O ancora rivedere, in questo film, lo stesso Borsellino che, un mese dopo Capaci, giunge una sera in un cortile di una biblioteca palermitana affollato all’inverosimile per spiegare con la voce rotta dall’indignazione che «Falcone ha iniziato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia».
Non c’è molto da capire
Vorrei, ancora, sentire ripetere le polemiche condotte contro Falcone per quell’insana idea di istituire una Procura nazionale antimafia, in fondo per replicare – contro la mafia – la struttura di coordinamento della lotta al terrorismo affidata anni prima al generale dalla Chiesa. Insana davvero, quella Procura che avrebbe potuto mettere nelle mani del maggiore esperto al mondo il mandato di guidare il contrasto della mafia non più a Palermo o in Sicilia, ma in tutta Italia. E che, appunto a livello nazionale, trovò di qua la diffidenza dei magistrati, di là il terrore di un mondo imprenditoriale infarcito di soldi di incerta provenienza. Vorrei sentire parlare di quella Super-procura contestata e temuta che costò verosimilmente la vita sia a Giovanni Falcone, sia a Paolo Borsellino, che di punto in bianco (e imprudentemente) venne indicato dai ministri dell’Interno e della Giustizia come il sostituto naturale dell’amico appena trucidato a Capaci.
Vorrei sentir dire, insomma, che fu una strage semplice da capire, invece di risciacquare i misteri infiniti che ci assolvono dalle abdicazioni e dai silenzi. Forse ho rievocato cose che stanno solo nella mia memoria; eppure, se faccio un controllo, sono tutte cose davvero accadute. Se la storia è maestra di vita, di lì deve passare.
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