Ci sarà tanta emotività, ma anche il fondo dell’umano che si commuove davanti a un popolo che chiede aiuto. Il nostro Paese è anche questo, come i giornali diocesani raccontano da sempre

di Francesco Zanotti
da Agensir

Foto Sir
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Il senso è quello dell’impotenza. La guerra vista da qua, dalla periferia del Paese, in una città della provincia italiana, ha quasi il sapore del racconto surreale. Pare di non poterci credere. Ci stavamo appena riprendendo dalla quarta ondata della pandemia da Covid-19 che ci è arrivata addosso l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Se qualcuno lo avesse paventato, nessuno ci avrebbe creduto. “No, non può essere vero”, era il pensiero diffuso.

Poi la gente, anche qua, si confronta con gli scaffali vuoti dei supermercati. Trova le file davanti ai distributori di benzina e le bollette di luce e gas raddoppiate. Allora comprende che quella guerra, quelle bombe sganciate contro i palazzi di villaggi e città ci toccano da vicino, arrivano anche nelle nostre case. Sì, perché le guerre oggi sono anche quelle economiche, quelle che spostano immensi capitali, arricchiscono e impoveriscono nel giro di poche settimane. Un tornado in grado di travolgere anche la tranquilla Romagna dove il benessere è diffuso, la disoccupazione non esiste e il tenore di vita è molto alto. Un luogo dove si vive bene. Dove la gente viene ad abitare e poi non va più via.

Che fare, allora, quando ci accingiamo a mettere in pagina il nostro giornale? Come tentiamo ogni giorno, proviamo un’operazione strabica, ormai per noi necessaria: un occhio dedicato a ciò che accade sempre in quel momento, per aggiornare l’edizione online, e un altro capace di scavare nel territorio, in Italia e nel mondo (grazie anche al lavoro del Sir), alla ricerca di quella parte di realtà che spesso fatica nel venire a galla.

Il bene che fiorisce

È su quel versante che tentiamo di scavare nelle notizie, prima di tutto andando a scovarle. Raccontiamo, fin dove ci è possibile, dell’immensa solidarietà che si è messa in moto. Delle manifestazioni di piazza con le badanti che nelle nostre case si prendono cura dei nostri genitori e dei nostri nonni. Delle veglie di preghiera nelle parrocchie. Dei rosari spontanei e di quelli con la comunità ucraina cattolica di rito greco-bizantino. Delle raccolte fondi avviate nelle chiese, nelle scuole, nelle associazioni e nei movimenti cattolici.

C’è la guerra con il suo strascico di lutti. Nessuno lo nasconde. Ci sono i bombardamenti, le sirene, gli ululati, i bambini che muoiono e quelli che scappano oltre frontiera. Ci sono le separazioni forzate tra mariti e mogli. Ma c’è anche tanto bene che fiorisce, proprio come antidoto alla guerra, per non farci marcire il cuore di rabbia, di rancore, di odio anche. Nell’eterna lotta del bene con il male, il territorio può costituire una sana terapia. Lontana dai bagliori delle telecamere, la gente apre le case, accoglie i profughi, allarga i portafogli, si stringe con chi è nella sofferenza.

Ci sarà anche tanta emotività, come spesso succede in frangenti come questi. È forse inevitabile. Ma vorrei vederci anche il fondo dell’umano che si commuove davanti a una richiesta di accoglienza, a un bisogno impellente, a un popolo intero che chiede aiuto. L’Italia profonda è anche questa, come i nostri giornali raccontano da sempre: un paese vivo e solidale, con l’animo generoso, nonostante gli insensati rincari delle ultime settimane che prosciugano gli stipendi e un domani pieno di incognite. Questo accade anche qui, da noi. In questo lembo di pianura custodito come un giardino, dove i peschi sono stupendamente di nuovo in fiore e ci ricordano che, nonostante le tante cattiverie umane, la vita segna sempre un nuovo inizio.

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