Monsignor Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell’Anatolia: «Si stanno scontrando due sistemi di civiltà: quello basato sul rispetto degli accordi internazionali e quello dell’aggressione brutale dove vince il più forte. Di tutto questo il nostro Paese sembra poco consapevole»

di Riccardo Bigi
Agensir - da “Toscana Oggi”

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Il vescovo Paolo Bizzeti, gesuita fiorentino, dal 2015 è vicario apostolico dell’Anatolia, la regione asiatica della Turchia. La sua sede è a Iskenderun, sul Mediterraneo, vicino al confine con la Siria, ma la diocesi arriva sino al Mar Nero, a 1200 chilometri di distanza.

Lei è vescovo in una terra che ospita i profughi di diverse guerre. Come vede, dal suo punto di osservazione, la guerra in Ucraina?
La guerra in Ucraina riguarda direttamente la Turchia, non solo per i problemi legati al costo del gas, al porto di Odessa – importante snodo per il commercio turco – e non solo per i rifugiati che scappano dalla guerra anche in Turchia. Ci sono due altri motivi significativi e forse poco conosciuti in Italia: il primo riguarda il turismo, infatti negli anni scorsi circa due milioni di ucraini venivano ogni anno in vacanza in Turchia, soprattutto nelle zone del mare, al sud. Ma il secondo è ancora più importante e riguarda il controllo del Mar Nero, che è forse la vera causa di questa sciagurata guerra. Le grandi potenze europee e asiatiche cercano di controllare questo fondamentale snodo del sistema economico e geostrategico. La Turchia controlla, come tutti sanno, la costa sud, il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli; ma in epoca ottomana cercò di estendere il suo potere anche sulla costa nord in conflitto con la Russia che progressivamente ne assunse il controllo, anche grazie al dominio su Bulgaria e Romania, almeno fino alla caduta dell’Urss. Adesso la politica di Putin e degli oligarchi mira chiaramente a estendere il dominio sul Mar Nero: per questo l’appoggio al partito filorusso in Giorgia nel 2008, l’intervento per il controllo del Nagorno Karabakh, l’appoggio ai ribelli delle zone limitrofe del Caucaso, avendo sempre di mira la ricostituzione dell’impero bolscevico. La Turchia in tutto questo prosegue in due direzioni: da una parte, come membro della Nato, cerca di allinearsi alla strategia degli alleati militari. Ma d’altra parte stringe anche forti legami con la Russia da cui ha acquistato in anni recenti importanti mezzi militari come i missili S400 suscitando non poche discussioni in seno alla Nato; inoltre circa dieci milioni di russi vengono annualmente in vacanza in Turchia: sono il gruppo più numeroso e più danaroso. Non è un caso che gli yacht degli oligarchi, scappati dai porti italiani, si siano rifugiati in quelli turchi. Non parliamo poi del grosso interesse commerciale della Turchia che esporta in Russia milioni di tonnellate di prodotti agricoli. Trovandosi tra due fuochi, la Turchia cerca di non essere travolta; non può fare diversamente, in un certo senso. Ma adesso il rischio che la Russia, dopo aver riconquistato la Crimea, allarghi il dominio su tutto il Mar Nero, è piuttosto grosso e inquietante. Il mar Baltico finirà per passare sotto il controllo della Nato, grazie a Finlandia e Svezia, ma dominare il Mar Nero è una faccenda di grande rilevanza. Siamo dunque di fronte a una guerra mondiale a pezzi, come non si stanca di dire il Santo Padre. La guerra in Ucraina non è limitata all’Ucraina, ma riguarda da vicino tutti: ormai è diventata una guerra globale in cui, in maniera più o meno velata, tutte le grandi potenze sono coinvolte. Di fatto si stanno scontrando due sistemi di civiltà: quello oligarchico e quello democratico; quello basato sul rispetto degli accordi e trattati internazionali e quello dell’aggressione brutale dove vince il più forte. Di tutto questo sembra ci sia scarsa consapevolezza in Italia, mentre, guardando gli scenari dalla Turchia, tutto questo appare piuttosto evidente.

Il fenomeno delle migrazioni, delle fughe da guerre e povertà, continua a segnare il nostro tempo con episodi drammatici. Qual è l’atteggiamento con cui dobbiamo affrontarlo?
Le immigrazioni per fughe da guerre e povertà caratterizzano la Turchia fin dai tempi antichi: o dai Balcani o dalla Russia o dall’Iran o dall’Afghanistan o dall’Iraq o dalla Siria, ecc, la Turchia, trovandosi a un crocevia determinante, conosce da secoli milioni di persone che vi hanno trovato rifugio. Non posso qui ricordare tutti i fatti storici connessi e del resto ben conosciuti. Oggi si aggiungono i migranti dall’Africa e dal sud est asiatico. Sarebbe ingenuo e anche pericoloso pensare che l’Italia e l’Europa possano accogliere tutti. Ma è completamente miope e anche ingiusto pensare di delegare alla Turchia la gestione di milioni di rifugiati che oltretutto scappano da guerre causate anche da interventi militari dell’Occidente, come le due sciagurate guerre in Iraq. Tutte cose che san Giovanni Paolo II aveva ben previsto. Per questi motivi, il problema dei rifugiati è anzitutto un problema che ci deve interpellare sulle nostre politiche. Ci sono partiti che strumentalizzano il problema di rifugiati e bisogna dissentire robustamente, come cittadini e come cristiani. Ci sono partiti che non affrontano il problema per motivi ideologici o per paura di dispiacere a una parte di elettorato e finiscono per rendersi complici con restrizioni all’immigrazione che sono disumane e anche inconcludenti. Se in Italia non facciamo più figli e impediamo di varcare la nostra frontiera a tanta gente onesta, che condivide i nostri valori di fondo, pronta a lavorare, quale futuro possiamo sperare? Ci condanniamo da soli alla sterilità, anche in campo industriale. Soprattutto ci chiudiamo in un ghetto culturale, sociale e religioso che non promette niente di buono. La storia mostra che solo le civiltà capaci di avere una fisionomia multi etnica, multi culturale e multi religiosa, sono diventate grandi; senza che questo volesse dire rinunciare alla propria identità di fondo. Così è stato per la civiltà mesopotamica, per quella ellenista, per quella romana, per quella ottomana, e anche per quella veneziana, capace di intrattenere relazioni, più o meno semplici, ma costanti, con partner differenti. Quindi io direi che il fenomeno migratorio richiede anzitutto accoglienza e umanità; poi capacità di filtrare le persone che sono pronte e disponibili a integrarsi nel nostro contesto, imparando la lingua, accogliendo il sistema di valori europeo, senza dover per forza rinunciare alla propria cultura e religione, ma riviste alla luce dei nostri valori democratici. A mio modesto avviso, per esempio, è inaccettabile una donna coperta dal burqa, dei matrimoni combinati dalla famiglia, una propaganda religiosa che non accetta di fatto il pluralismo religioso e la reciprocità nei propri paesi di origine. Un immigrato che vuole il diritto di aprire una moschea in Europa e poi sostiene nel suo Paese d’origine partiti e governi che non permettono l’apertura di una chiesa, non è accettabile. Con tutto questo intendo dire che per i cittadini di buona volontà e soprattutto per i cattolici, è anzitutto necessario provvedere ai beni di prima necessità per coloro che si trovano privi di tutto, scappati da situazioni terribili … ma poi è indispensabile un’azione profetica, che stimoli i politici e gli amministratori per una gestione del fenomeno migratorio che agisca sulle cause, che sia capace di distinguere persona da persona e che abbia seri programmi di inserimento.

Lei era a Firenze a febbraio per il convegno dei vescovi del Mediterraneo. È ancora viva la speranza di trovare vie di unità tra le diverse sponde, quella europea, quella asiatica, quella africana?
Credo che a Firenze sia successo qualcosa di molto importante, perché era la prima volta che amministratori e vescovi del Mediterraneo si sono incontrati e hanno firmato un’importante carta di intenti e di valori condivisi. È un seme e come tutti i semi arriverà a portare frutto nella misura in cui le persone lo coltiveranno. Ma nessuno potrà dire che non è possibile un’intesa. È molto importante e ringrazio ancora che gli organizzatori, nella scia di La Pira, abbiano avuto il coraggio di sognare in grande.

Come vive la comunità cristiana in Anatolia? Quale testimonianza cerca di dare? Cosa possiamo fare, dall’Italia, per sostenerla? E quale “lezione” possiamo imparare?
I cristiani in Anatolia hanno imparato a vivere da piccola minoranza, fedeli alle loro scelte di fede e di morale. Vivono adesso lo scontro con il consumismo e con la civiltà di internet che trova i giovani impreparati e speso vittime complici con una visione della vita effimera, istantanea, senza radici in scelte profonde e continuative. La sfida di accogliere coloro che desiderano diventare cristiani richiede anche da noi una diversa prassi di chiesa, meno basata su liturgie e clero e maggiormente radicata nella parola di Dio e nella famiglia. Ma i problemi più grossi li vivono i rifugiati cristiani provenienti dai Paesi vicini. Questi vivono una situazione drammatica di stallo, senza futuro e soprattutto impossibilitati a una vita cristiana comunitaria che richiede luoghi di culto, centri giovanili e culturali, pastori che li aiutino a interpretare bene il tempo dell’esilio in cui vivono. Non abbiamo preti e suore che siano al servizio del gregge, non abbiamo la possibilità di un libero scambio tra le comunità perché i rifugiati sono relegati nelle città assegnate dal governo e, sebbene siano sotto la protezione Unhcr, ogni volta devono ottenere un permesso dalla polizia per uscire dalle loro città, permesso spesso negato. Non esito a dire che è un popolo cristiano martire.

 

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