Dopo il segnale dell’Onu si attende quello delle elezioni israeliane
di Riccardo MORO
«Il voto alle Nazioni Unite non è stato solo un sostegno ai palestinesi, ma in modo altrettanto forte è stato un segnale che la comunità internazionale ha inviato a Israele». Con queste parole apriva Haaretz, il più autorevole giornale israeliano, dopo il voto dell’assemblea generale delle Nazioni Unite che ha riconosciuto alla Palestina lo status di Stato osservatore. È un voto di grande importanza. Con esso l’Onu non attribuisce una membership piena alla Palestina, i suoi rappresentanti non parteciperanno ai voti, non faranno parte effettiva dell’Assemblea, ma ne riconoscono in modo pieno le caratteristiche di Stato, di Nazione, e in questo vi è evidentemente un passaggio storico. Sinora l’Autorità nazionale palestinese (Anp) era stata considerata nei testi del Palazzo di Vetro una “entità” e Israele, da parte sua, ha sistematicamente ostacolato nei fatti la prospettiva di due Stati conviventi, che per tutta la comunità internazionale, viceversa, è requisito essenziale per i negoziati di pace.
Nei giorni scorsi gli scontri tra Hamas e Israele avevano portato alla firma di una tregua che sembrava premiare politicamente gli estremisti. In Israele il governo di destra di Netanyahu si era vantato della propria capacità di reagire con forza e della disponibilità a sedere comunque a un tavolo di trattative per fermare le armi. Nel mondo palestinese Hamas tentava di delegittimare ulteriormente la leadership di Ramallah candidandosi a essere l’unico interlocutore autorevole dello Stato d’Israele e della comunità internazionale. Questo passaggio, in particolare l’esclusione dell’Anp dai negoziati al Cairo, aveva reso ancora più evidente la divisione esistente nel campo palestinese, con il rischio di perdere oltre alla continuità territoriale, anche – e in modo definitivo – l’unità politica tra Cisgiordania e Striscia di Gaza. La prima è l’area che va da Hebron al Sud e Jenin al Nord, passando per Gerusalemme Est e Ramallah. La seconda è la sottilissima fascia costiera intorno a Gaza, confinante con l’Egitto, le cui frontiere sono strettamente controllate dall’esercito israeliano. Insieme costituiscono i territori amministrati dall’Anp, oggi riconosciuta col voto Onu. Di fatto però l’Anp governa da Ramallah, poco a Nord di Gerusalemme, con la presidenza di Abu Mazen, succeduto ad Arafat, e la leadership politica di Fatah, mentre Gaza, guidata dal movimento fondamentalista Hamas, si è sottratta alla sua giurisdizione.
Se con la tregua sembravano rafforzati gli estremismi di entrambe le parti, il voto al Palazzo di Vetro ha spiazzato i giochi, anche per i risultati numerici che hanno premiato la scelta di Abu Mazen di contenere le occasioni di conflitto e privilegiare gli strumenti democratici. Solo nove Paesi, infatti, hanno votato contro il riconoscimento. Ben 138 sono stati i favorevoli e 41 gli astenuti, una formula che in questo caso comportava un appoggio soft al riconoscimento. Tra gli astenuti anche la Germania, che per le responsabilità passate nell’Olocausto non aveva mai lasciato solo Israele in un voto alle Nazioni Unite. Israele si è scoperta del tutto isolata, il suo premier coperto di critiche dalla stampa nazionale – non solo quella liberal – che lo ha accusato di non aver saputo gestire le relazioni internazionali.
Per tutta risposta Netanyahu ha deliberato la creazione di nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania, costruendo 3 mila nuovi appartamenti con l’intenzione palese di tagliare la Cisgiordania orizzontalmente interrompendone di fatto la continuità territoriale. Ma il gesto peggiore è stato quello successivo: la decisione di trattenere i contributi fiscali dei lavoratori palestinesi raccolti dal fisco israeliano, dovuti e normalmente e versati all’Autorità nazionale palestinese. Con questa scelta il governo di Ramallah si troverebbe da un giorno all’altro privato di una fondamentale risorsa finanziaria e nell’impossibilità di erogare i servizi per i cittadini.
Il futuro rimane incerto. Molto dipenderà dalle prossime elezioni in Israele. Le primarie della destra hanno determinato liste ancora più radicali, se possibile, dell’attuale composizione del Likud. A sinistra il partito laburista non sembra ancora riuscire a proporre una leadership autorevole, mentre al centro l’ex ministro degli esteri Tzipi Livni sta costruendo un nuovo partito. Molti intellettuali hanno criticato il governo e salutato con favore il voto Onu. Difficile dire quanto questo possa contare nell’imminente dibattito elettorale.
Quale che sia la prossima composizione della Knesset (Parlamento israeliano), c’è comunque ancora un attore che deve assumere un’iniziativa autorevole: gli Stati Uniti. Obama, con il nuovo mandato elettorale ha la forza per intervenire e provocare il nuovo governo israeliano a un percorso di pace, giocando anche sulla dipendenza militare d’Israele dagli Usa. Inutile dire, purtroppo, che l’Europa è ancora una volta completamente fuori dai giochi.