Due parole “difficili” e una riflessione sul “caso Meredith”

Elio BROMURI
Direttore “La Voce” (Umbria)

Amanda Knox

Amanda ha sofferto, tutti sono preoccupati per lei. Non solo le televisioni, affascinate dalla sua persona, ma anche i giornalisti americani. Attorno a lei e non da oggi si è svolto un ampio gioco mediatico, che dal piano giudiziario e processuale ha trasferito la vicenda sul piano spettacolare. Protagonista è stata questa giovane donna avvenente che ha destato attenzione e curiosità e ha conquistato anche la stima del cappellano frequentando con assiduità la cappella del carcere. Al momento dell’assoluzione dall’accusa dell’omicidio, in base alla quale era stata condannata in primo grado al carcere, si sono concentrate tutte le premure per facilitare il suo ritorno in patria, a Seattle, dove si è fatta festa, come si trattasse di una vittoria sospirata finalmente raggiunta.

In ambito processuale, purtroppo, si usano linguaggi da competizioni sportive, parteggiando per l’una o l’altra parte, quando dovrebbe trattarsi di comune e doverosa, seppure sofferta, ricerca della verità e della responsabilità per rendere giustizia alle vittime. Nel nostro caso la vittima è stata Meredith Kercher, una studentessa inglese, che è stata sgozzata brutalmente e lasciata cadavere sotto un pesante coltrone che ne avrebbe dovuto seppellire il sangue e il ricordo.

La vicinanza piena di affetto con gesti di protezione verso Amanda come verso lo stralunato Raffaele è legittima e rispettabile. Anche loro sono in qualche modo vittime di una carcerazione non dovuta secondo il verdetto di appello, e magari vittime anche di loro stessi, essendosi cacciati in tanti guai. Amanda, tra l’altro, è stata condannata per calunnia contro Patrick Lumumba, risultato innocente. Ha già scontato la pena, ma non ha fugato l’ombra di una persona capace, in certe situazioni, di comportarsi in maniera insincera e senza scrupoli.

In questa brutta e tragica storia è difficile nominare la parola innocenza. E anche la parola giustizia. Il fatto certo è la morte di una giovane, Meredith, che abbiamo visto in una foto, la prima volta che è apparsa su giornali e teleschermi, dotata di una maschera macabra tipica della ricorrenza della festa pagana Halloween. Per alcuni una festa innocente, per molti solo da sballo. Lei e la sua famiglia, le vere vittime, sono rimaste male, molto male, non potendo sapere neppure chi fosse stato l’assassino, considerato che il ragazzo africano Rudy Guedé è stato condannato per “concorso” in omicidio. L’assoluzione di Raffaele Sollecito e di Amanda Knox lascia una scia d’interrogativi e di dubbi. Vi sono state anche reazioni contrarie al grido di «vergogna» verso la corte. Questa ha certamente decretato l’assoluzione secondo scienza e coscienza, dopo aver assistito a tutte le sedute e ascoltato le arringhe dell’accusa, della difesa e dei periti e dopo aver discusso per 11 ore in camera di consiglio. Nessun dubbio su ciò.

Il dubbio resta sulle procedure d’indagine seguite fin dall’inizio, che avrebbero dovuto condurre a più convincenti conclusioni. La conseguenza che da tutto ciò si trae è che la verità, in ogni ambito di ricerca, non sempre si appalesa facilmente soprattutto quando sono presenti interessi perché rimanga nascosta. Un avvocato della difesa ha detto: «Abbiamo vinto una battaglia, non la guerra». Che questa prolungata memoria, persino ossessiva, serva almeno ad alzare il livello di attenzione e d’impegno verso i giovani, ai quali l’arcivescovo Gualtiero Bassetti, molto sensibile e attivo nell’ambito della pastorale giovanile e universitaria, ha sentito la necessità d’inviare un appello alla speranza.

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