Imprese chiuse, bilanci statali in rosso. Eppure secondo le recenti statistiche della Commissione Ue la crisi economica è alle spalle e i mercati diventano più vivaci e recettivi
di Gianni BORSA
Venti milioni. Una cifra impressionante. È l’esercito dei disoccupati nei 28 Paesi membri dell’Unione europea; di questi 20 milioni, 15 sono in Eurolandia (cioè i 19 Paesi della moneta unica). Occorre partire da qui, dalle cifre assolute anziché dalle percentuali, per rendersi conto di quanto esteso sia il problema della carenza di lavoro nel Vecchio Continente. Certo, secondo Eurostat e Commissione Ue la percentuale delle persone senza impiego sta progressivamente calando rispetto alle punte raggiunte durante la crisi economica del 2008-2014. Ma come spiegare a chi, in questi anni, ha perso il posto, oppure ai giovani che non hanno concrete prospettive professionali, che le statistiche volgono al bello?
Numeri e quotidianità
Lo choc causato dalla recente, grande crisi, generatasi negli Stati Uniti e presto trasferitasi su questa sponda dell’Atlantico, ha lasciato strascichi pesanti: imprese chiuse, licenziamenti, conti pubblici fuori asse. Con ulteriori conseguenze su consumi, risparmi, investimenti, welfare, pensioni… E la necessità, per i Paesi investiti dalla recessione, di procedere con pesanti riforme, dapprima nel segno dell’austerità, oggi – seppur tardivamente – rivolte alla crescita.
Ma quando i dati macroeconomici indicano che il tunnel della crisi è alle spalle, possono passare mesi, talvolta anni, prima che lavoratori e famiglie tocchino con mano che il vento è cambiato. È peraltro necessario aggiungere un’osservazione non trascurabile: la crisi ha investito con potenza differente le diverse economie europee, semplicemente perché alcuni Paesi avevano le “spalle larghe” (sistemi bancari più solidi, apparati produttivi e commerciali competitivi, bilanci statali sani, welfare efficienti), altri meno. Si può osservare, nel complesso, che il nord Europa – Germania in testa – ha resistito meglio, l’est ha retto abbastanza bene, l’area mediterranea invece ha pagato il prezzo più caro.
Il quadro internazionale
Qual è il quadro attuale? Le “Previsioni economiche”, rese note dalla Commissione europea il 13 febbraio scorso, affermano che «la ripresa continua ad avere forti effetti positivi sui mercati del lavoro, a seguito di ampie riforme strutturali in diversi Stati membri». La crescita dell’occupazione «dovrebbe rimanere relativamente sostenuta, seppure un po’ meno dinamica nel 2017 e nel 2018 rispetto allo scorso anno». Nella Zona Euro si prevede un ulteriore calo del tasso di disoccupazione, dal 10,0% nel 2016 al 9,6% quest’anno, al 9,1% nel 2018. Per l’Ue nel suo insieme, la disoccupazione dovrebbe scendere dall’8,5% del 2016 all’8,1% quest’anno, per assestarsi al 7,8% nel 2018.
«Pur restando al di sopra dei livelli pre-crisi – si legge nel voluminoso documento previsionale – questi sono i tassi di disoccupazione più bassi dal 2009». Pierre Moscovici, commissario per gli Affari economici e finanziari, ha dichiarato: «L’economia Ue si è dimostrata capace di resistere» agli scossoni e agli andamenti ciclici del 2015 e 2016. «La crescita sta tenendo e la disoccupazione e i disavanzi calano; ma, con una incertezza a livelli così elevati, è più importante che mai utilizzare tutti gli strumenti offerti dalle politiche di sostegno alla crescita». Tradotto: la crisi è dietro di noi, eppure occorre stare in guardia perché l’economia mondiale potrebbe risentire dell’instabilità politica e delle minacce alla pace che caratterizzano troppe regioni del Pianeta. Senza trascurare il fattore-protezionismo che si aggira, spettrale, nel mondo, con uno sponsor di rilievo come il presidente Usa Donald Trump.
Sostanziali differenze
Permangono inoltre le ineguali situazioni dei mercati del lavoro nazionali. A questo proposito occorre premettere che Eurostat, per fornire i dati alla Commissione Ue, rielabora a sua volta cifre provenienti dagli istituti di statistica nazionali, basati su parametri non sempre coincidenti. I puri numeri relativi alla disoccupazione nascondono così realtà difformi. Va infatti considerato, ad esempio, che i contratti di lavoro cambiano – e di molto – da Paese a Paese; che le retribuzioni, anche a parità di mansioni e responsabilità, variano da poche centinaia di euro al mese (in alcuni Paesi dell’est) a cifre cinque o sei volte superiori (ad esempio a Londra, in Germania, in Scandinavia). Ancora: non si può dimenticare che in taluni Stati l’immissione dei giovani in fabbriche, negozi o uffici avviene con stage o apprendistati retribuiti benché a tempo determinato, in altri ciò non avviene, con mercati del lavoro molto più ingessati; che amplissima è la gamma dei “paracaduti” offerti dagli Stati membri per chi cerca o dovesse perdere il posto (cassa integrazione, mobilità lunga, prepensionamenti, assegni di disoccupazione, reddito minimo garantito…).
Conferme e anomalie
Venendo ai dati nazionali, è infine possibile rilevare conferme e qualche sorpresa. La disoccupazione (ci si riferisce al dato generale, perché le percentuali per i giovani vanno almeno moltiplicati per due, talvolta per quattro) è ai minimi storici in Repubblica Ceca (4,0% nel 2016; 3,9% la previsione per il 2017; 3,8 l’anno successivo) e Germania (4,1% sia lo scorso anno che nel biennio 2017 e 2018). Buone le prospettive occupazionali anche in Austria, Slovenia, Danimarca, Ungheria, Polonia, Svezia. I Paesi che, all’opposto, registrano dati preoccupanti sono ancora una volta la Grecia (23,4% nel 2016; 22,0% nel 2017) e Spagna (19,7% nel 2016, poi però il dato tende a diminuire di quasi due punti l’anno). La Francia ruota attorno al 10%, mentre l’Italia è un caso emblematico, con un tasso di senza lavoro costantemente sopra l’11%.
Altro caso a sé è rappresentato dal Regno Unito, dove i posti di lavoro non mancano, ma, assieme alla piccola Estonia, è l’unico Stato con una disoccupazione in lieve aumento: 4,9% nel 2016, 5,2 quest’anno e 5,6 nel 2018. I commenti britannici ai dati Ue sono stati duplici: scettici da parti delle fonti governative e negli ambienti anti-Europa; preoccupati da parte delle organizzazioni imprenditoriali, dei sindacati e dei vasti settori di società civile che al referendum sul Brexit aveva votato per il “remain”.