Morto a 93 anni l'ex presidente israeliano, che in oltre 70 anni di vita politica, fece del realismo uno dei suoi tratti distintivi. Fu Nobel per la pace nel 1994 e nel 2014 partecipò in Vaticano all’incontro col palestinese Abu Mazen voluto da papa Francesco

di Daniele ROCCHI

Shimon Peres

Se c’è un’immagine che più di tante altre potrebbe riassumere la vita dell’ex presidente israeliano Shimon Peres – Nobel per la Pace 1994 – spentosi oggi all’età di 93 anni per le conseguenze di un ictus che lo aveva colpito due settimane fa, questa potrebbe essere la foto che lo ritrae, nei Giardini Vaticani, l’8 giugno del 2014, con una pala in mano a piantare un ulivo, tradizionale simbolo di pace, insieme al suo omologo palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), al Patriarca ecumenico Bartolomeo e al padrone di casa, papa Francesco.

Gerusalemme, pace. In quella occasione Peres tenne un breve, ma denso discorso in cui la parola “pace” risuonò per ben 25 volte, la prima di queste contenuta nel passo dei Salmi (122, 6-9) dove si legge “Chiedete pace per Gerusalemme”. Un richiamo naturale dato che in ebraico la parola ‘Gerusalemme’ e la parola ‘pace’ hanno la stessa radice. Tutta la vita dell’ex presidente Peres, uno dei padri dello Stato di Israele – in 70 anni circa di attività politica ha ricoperto tutte le principali cariche di Governo – è stata costellata dalla ricerca del dialogo. Lui, che pure era stato un giovanissimo membro dell’Haganah, organizzazione paramilitare ebraica in Palestina poi integrata nelle Forze Armate israeliane, e direttore generale della Difesa partecipando anche alla Guerra di Suez nel 1956 contro l’Egitto.

Da falco a colomba: fino a ricevere, nel 1994, il premio Nobel per la Pace, insieme al suo collega israeliano Yitzhak Rabin – poi assassinato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv da un estremista ebreo – e al leader palestinese Yasser Arafat, per gli Accordi di Oslo, siglati il 13 settembre del 1993. Da lì in poi il leader ne avrebbe viste ancora molte e di tragiche, dentro e fuori i confini di Israele, la seconda Intifada, l’ascesa di Hamas, i kamikaze. Tutte le contraddizioni della storia superate con realismo, ma anche con la forza del sognatore che capiva bene, sono sempre parole del suo discorso dell’8 giugno 2014 nei giardini Vaticani, che «due popoli – gli israeliani e i palestinesi – desiderano ancora ardentemente la pace. Le lacrime delle madri sui loro figli sono ancora incise nei nostri cuori. Noi dobbiamo mettere fine alle grida, alla violenza, al conflitto. Noi tutti abbiamo bisogno di pace. Un’aspirazione che tutti condividiamo: Pace». Per poi aggiungere, rivolto a papa Francesco: «Che la vera pace diventi nostra eredità presto e rapidamente. Il nostro Libro dei Libri ci impone la via della pace, ci chiede di adoperarci per la sua realizzazione». In questo suo discorso, che si potrebbe quasi assumere come suo testamento spirituale, la consapevolezza che «la pace non viene facilmente. Noi dobbiamo adoperarci con tutte le nostre forze per raggiungerla. Per raggiungerla presto. Anche se ciò richiede sacrifici o compromessi. Questo significa, che dobbiamo perseguire la pace. Ogni l’anno. Ogni giorno. Noi ci salutiamo con questa benedizione: Shalom, Salam».

L’eredità di Peres è tutta qui, sognare la pace, “perseguire la pace” nella speranza che chi verrà dopo di lui possa riprendere in mano quella pala per finire il lavoro di piantare quell’ulivo e farlo crescere forte e rigoglioso.

 

 

 

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