L’innalzamento delle temperature e il conseguente scongelamento del permafrost comportano di fatto un nuovo rischio per la salute umana e degli altri animali
di Maurizio
Calipari
Agensir
Sul nostro pianeta, la maggior parte del permafrost – si definisce così il terreno gelato da almeno 2 anni, formato da ghiaccio, suolo, roccia e sedimenti – si trova nelle regioni artiche e antartiche. In particolare nella regione artica, dove rappresenta la base degli ecosistemi attivi e degli insediamenti umani, esso si sta purtroppo degradando a causa del riscaldamento globale, con pesanti conseguenze su più fronti.
Tra queste, merita particolare attenzione il rischio biologico legato alla presenza di svariati virus “antichi”, sepolti (o meglio, “ibernati”) nel ghiaccio, dei quali sappiamo ancora poco e che solo di recente stiamo iniziando a conoscere. Gli ultimi a essere scoperti sono stati sette virus provenienti dal permafrost antico della Siberia, trovati e riportati in vita da un gruppo internazionale di ricercatori, guidato dai microbiologi dell’Università di Aix-Marseille, in Provenza (Francia), e del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica francese. Il più antico di essi – un Pandoravirus di grandi dimensioni – è stato datato intorno ai 48.500 anni fa: il virus più antico mai rianimato.
Ancora pericolosi, come prevenire
Il fatto è che questi “paleovirus” liberati dal permafrost disciolto hanno mostrato di essere ancora in grado di infettare altri organismi, confermando così la loro capacità di sopravvivere per migliaia di anni in uno stato dormiente nel terreno gelato. Ecco perché l’innalzamento delle temperature e il conseguente scongelamento del permafrost comportano di fatto un nuovo rischio per la salute umana e degli altri animali.
Per prevenire e contenere tale “minaccia”, i ricercatori si sono dunque messi alla ricerca di questi virus antichi, adattando un protocollo sperimentale di sicurezza già usato in passato. Come descritto in un recente studio (pubblicato in preprint su bioRxiv), un gruppo di scienziati, coordinati dal microbiologo Jean-Marie Alempic, ha analizzato campioni di permafrost siberiano datati fra i 27.000 e i 48.500 anni fa, combinandoli con colture di laboratorio contenenti cellule di Acanthamoeba, organismi unicellulari appositamente scelti dai ricercatori come ospiti-esca per i virus, proprio per evitare qualsiasi rischio biologico. Essi, infatti, sono evolutivamente lontane dagli umani e dagli altri mammiferi (le rispettive linee evolutive si sono separate da circa un miliardo di anni), per cui la ricerca di virus in grado di infettarle garantisce una protezione contro il contagio degli operatori e l’eventuale a dispersione dei virus stessi.
Analizzando i campioni di permafrost, Jean-Marie Alempic e colleghi, oltre ai “giganteschi” Pandoravirus, hanno scoperto e riportato in vita anche ceppi virali della famiglia Mimiviridae (come il Megavirus mammoth), insieme al Pacmanvirus lupus e il Pithovirus mammoth, entrambi scoperti all’interno di sedimenti contenenti resti animali (parti interne di lupi fossilizzati e pelliccia di mammut).
Come sopravvivono
La notevole grandezza di questi virus – compresa fra i 200 e i 770 nanometri di diametro – suggerisce che siano proprio le dimensioni a permettere loro di sopravvivere in ambienti così difficili. Queste specie, infatti, presentano gusci esterni robusti (i “capsidi”), in grado di resistere a condizioni estreme e proteggere il genoma virale all’interno. I ricercatori sottolineano però che «l’identificazione di virus “giganti” è favorita, dato il ruolo della microscopia ottica nell’individuazione della replicazione virale. È probabile quindi che virus più piccoli in grado di sopravvivere nel permafrost sfuggano all’esame».
Sebbene la capacità di infettare le amebe (Acanthamoeba) escluda la nostra specie e quelle animali come possibili ospiti degli antichi virus scoperti, nel terreno gelato potrebbero esisterne molti altri in grado di raggiungere umani e animali. «Data la diversità dei virus incontrati – affermano gli autori -, si può dedurre che molti altri virus, in grado di infettare una gran varietà di ospiti oltre ad Acanthamoeba, possono rimanere infettivi in simili condizioni ambientali».
L’antrace in Siberia
Non si tratta solo di rischi ipotetici, ma di episodi reali già accaduti. Ne è esempio l’epidemia di antrace che nel 2016 si verificò nella penisola di Yamal, nella Siberia nord-occidentale. In seguito a un’ondata di calore, lo scongelamento del permafrost fece riemergere spore di Bacillus anthracis, il batterio responsabile dell’antrace, causando il contagio di decine di persone, il decesso di un ragazzo e la decimazione della popolazione locale di renne.
Contro i virus preistorici, però, la situazione è diversa. Non abbiamo, infatti, farmaci equivalenti degli antibiotici ad ampio spettro, in grado di contrastarli. Come ci ha insegnato la pandemia di Covid-19, ogni nuovo virus richiede quasi sempre lo sviluppo di antivirali e vaccini specifici per le sue caratteristiche. Ecco perché diventa fondamentale riuscire a scoprire quali ceppi virali si nascondono sotto il permafrost antico, per prevenire eventuali epidemie dovute al ritorno di questi patogeni. Del resto, a causa dell’aumento delle temperature e della probabile crescita delle popolazioni nelle regioni artiche, il rischio di incontro fra questi virus e nuovi ospiti potrebbe ragionevolmente aumentare.