A 75 anni dalla fine della guerra, serve ancora questa festa nazionale? Oggi è più necessario perché riaffiorano rigurgiti neofascisti, intolleranza verso il diverso, nazionalismi esasperati. Ma soprattutto occorre fare memoria dei valori fondanti della Resistenza e della democrazia
di Guido
FORMIGONI
Storico, Prorettore dell'Università Iulm
Sono passati tre quarti di secolo dalla Liberazione del 1945. Un periodo lungo, che ci ha quasi separato dalla memoria fisica di quei giorni e di quegli eventi, ormai incarnata solo da pochissimi sopravvissuti. Ma una distanza così cospicua annulla anche il senso del ricordo? Celebrare il 25 aprile come festa nazionale serve ancora? Esiste un tangibile peso di quegli eventi lontani sulla nostra convivenza civile? Esiste un loro lungo effetto sulla nostra democrazia? Il rischio di indebolire progressivamente il senso della ricorrenza esiste, non neghiamolo. Un ricordo stanco e retorico – troppe volte sperimentato negli ultimi decenni – contribuisce del resto lentamente allo stesso esito.
Atteggiamenti da combattere
Chi sostiene che oggi non abbia più senso ricordare in termini collettivi quegli eventi, consegnandoli definitivamente alla storia, dimentica che esistono ancora gruppi, persone, ambienti, che positivamente si ispirano al fascismo e al nazismo: a quei mali che la Liberazione pensava di aver seppellito per sempre. Inoltre, hanno preso forma nella vita reale e virtuale dei nostri tempi una serie di atteggiamenti e di comportamenti che richiamano di fatto quella mentalità, correndo anche in chi fascista non si dichiari: basti pensare all’intolleranza nei confronti del diverso, all’odio sistematico verso un nemico, al nazionalismo esasperato, alla retorica del capo che risolve tutti i problemi. Va da sé: non basta indicare la presenza di queste minoranze o di questi comportamenti per dire che l’antifascismo deve essere ancora ribadito e attivo. Appare indubbiamente opportuna una resistenza e un’attenzione continua: la democrazia non può soccombere per mancanza di autodifesa. Ma non basta una logica reattiva e negativa, quasi che i valori fondanti della memoria della Liberazione siano costituiti solo da una serie di aspetti critici e contrappositivi.
È invece ancora possibile oggi prendere sul serio la sfida della Liberazione e della democrazia in termini positivi e progettuali? Proporrei tre telegrafici spunti di riflessione, che sarebbe possibile a mio modesto parere approfondire e sviluppare.
Libertà e responsabilità
In tempi di emergenza pandemica, ricordare la Liberazione dovrebbe portarci alle radici di un senso della libertà intesa non solo come individualistica mancanza di freni e di regole, ma come investimento personale sulla libertà di tutti, collegata alla responsabilità di ognuno verso la società. Diritti e doveri si tengono nella Costituzione e nella coscienza dei fondatori della democrazia. Anche accettare le restrizioni imposte dalla solidarietà nei confronti degli altri, i più fragili, i minacciati dal virus, è pienezza di libertà. I nostri tempi stanno facendo fatica con questo concetto basilare della convivenza, non neghiamocelo: una cultura sacrosanta dei diritti si è tramutata in un atteggiamento diffuso di totale autocentratura delle persone. Anche se forse poi va detto che quegli italiani rappresentati sempre come reattivi e insofferenti alle regole stanno dando una prova inaspettata di autoregolazione e solidarietà. Quanto riscopriremo di questa libertà matura quando l’emergenza sarà finita? Oppure torneremo a lamentarci di ogni vincolo e di ogni esigenza posta dalla solidarietà sociale?
Istituzioni necessarie
In tempi in cui una concezione totalmente liberista dell’economia, che sembrava dominante, ha mostrato i suoi limiti; quando l’emergenza ecologica mette in discussione il modello di semplice massimizzazione del profitto; quando si moltiplicano le incertezze fondate sull’illusione che il semplice affidarsi al mercato risolva i problemi e migliori gli standard di convivenza, credo che si dovrebbe rilanciare lo spirito della Liberazione come riscoperta della necessità di istituzioni civili e politiche solide. Istituzioni concepite come strumento di convivenza dei diversi, come «casa comune». Il ritorno della statualità che molti esempi mondiali stanno mostrando attuale potrebbe dirci molto, se gestito in modo maturo e sensato. Naturalmente di una statualità che non si presume assoluta, ma che crea modelli di convivenza in grado di dialogare con la società e di promuove la partecipazione e il coinvolgimento dei cittadini.
Sempre no alla guerra
In tempi di annunciata crisi della globalizzazione, quando appare illusoria la convinzione di avere raggiunto ormai un’unificazione spontanea del mondo, e invece emerge la contrapposta illusione “sovranista” di tutelare i nostri interessi contro gli altri, la Liberazione ci dovrebbe ricordare la volontà di ripudiare per sempre la guerra e il conflitto come strumento di soluzione dei problemi. La Liberazione è stata l’uscita dalla dittatura, ma anche dalla guerra, con cui la dittatura aveva identificato il proprio fine. Prospettare un futuro diverso per il nostro Paese implicava anche evitare una possibile guerra civile: la Costituzione è stata scritta e alla fine bene o male rispettata per decenni da persone e gruppi che avevano ideologie profondamente contrapposte, e la prova della guerra fredda avrebbe anche potuto metterla in crisi drammaticamente. Occorre quindi riandare a quelle radici per insegnarci a intraprendere un percorso faticoso di incontro e di riconoscimento nella comune razionalità umana, anche tra diversi, come occasione per gestire in modo dialogante e maturo il confronto degli interessi e dei valori di tutti. Il conflitto non è mai l’ultima parola: prenderlo realisticamente sul serio deve essere il primo passo per cercare una soluzione condivisa.